Un anno fa.

C’era il sole, lo so perché ho deciso per una passeggiata. L’ultima.
Chi sapeva, due o tre, sapeva tutto. Chi non sapeva, non poteva di certo immaginare… Bravi noi a salvare le apparenze.
Non eravamo neanche più arrabbiati, lo misuravo così il periodo. Pensavo che se c’era rabbia c’era amore. Brava io ad aggrapparmi a tutto.
Ora non c’è rabbia. Vorrei dire che non c’è amore e la verità è che ti vorrò bene per sempre. Un bene sano, che non concepisce egoismo, che ti augura di essere felice, o almeno di vivere al meglio.
Un anno fa ho pensato che non saremmo stati mai più felici da insieme, lo penso anche oggi.
Un anno fa siamo stati coraggiosi. Credevo di dirlo per convincermi, invece è proprio così. Lasciarci è stato il nostro gesto più coraggioso di sempre. Lasciarci è stato l’ultimo residuo di amore che avevamo da darci.
Un anno fa mi sono svegliata con la mascella tesa, oggi anche.

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l’amore che ho.

Alla morte di David, qualche giorno fa, io non ero pronta ad ascoltare Space Oddity in particolare, ne null’altro sia stato prodotto da Bowie. La ragione è personale, e non ha niente a che vedere con la sua dipartita. Da novembre 2014 a febbraio 2015 (i mesi più freddi dello scorso anno) io andavo a correre (nelle ore più fredde), in cuffia avevo sempre Bowie, in particolare, appunto, Space Oddity. Non mi faceva correre più forte, non mi caricava, semplicemente faceva emergere i miei pensieri ricorrenti, brutalmente. Era come un riflesso, il mio corpo e la mia mente si erano abituati, alle prime note i pensieri fluivano e io per almeno un’ora potevo lasciarli fare. Mi concedevo quel tempo e basta. Poi, esattamente come avevo aperto, chiudevo. Tornavo alla mia vita, alle mie chiacchiere, alle serie tv, agli scritti, alle letture, alla cucina, alle letterine all’amica, alle lunghe telefonate alla mamma. Era la mia vita, quella precedente.

In uno dei momenti della mia vita precedente, era notte, mi sono arresa. Dopo quattro mesi, sì, da novembre a febbraio. E’ stato più che chiaro che tutto quello che potevo fare, o recuperare, lo avevo fatto. E’ stato chiaro che l’unica guerra che si stava svolgendo era contro me stessa. Il mio incaponirmi su quella vita, il mio essere legata a una forma futura che per definizione è sempre immaginata. A quel punto mi sono fatta una domanda, molto onesta: adesso dove lo metto tutto l’amore che volevo dare a lui?

Credevo di averlo buttato, invece era solo nascosto. L’ho assopito, tra le varie, con ausili chimici di cui non vado troppo fiera ma che per un po’ ho considerato addirittura utili. La verità è che implodevo. Ed ogni giorno peggiorava. Se in principio era evidente solo a me, col passare dei mesi, è diventato palese anche per chi mi stava intorno.

Mi è servito quasi un anno e mi sono servite tre notti e tre giorni in bianco, così tutto quello che avevo nascosto è uscito e con prepotenza. Ora so dove va il mio amore. Va alla mia famiglia, a cui sono stata appiccicata negli ultimi giorni, per la prima volta, dopo moltissimo tempo, per stare vicina loro, non più per sanare un mio bisogno. L’amore che ho, lo do a Django, il mio cane. Lui che si sveglia felice ogni mattina, e che va a dormire felice ogni sera. L’amore che ho è per le amiche, quelle vicine e a lei che è geograficamente fuori mano (o lo sono io), ma solo geograficamente. L’amore che ho lo do a persone che mi hanno avvicinata negli ultimi mesi, quelle che sul momento ho pensato cose tipo: “ti prego, no… lasciami stare che mi sto godendo l’ennesima giornata di solitudine al mare…” e poi, invece, sono state in grado di afferrarmi una mano, nonostante le mie resistenze, nonostante il mio negare un chiaro bisogno. L’amore che ho lo do a me stessa, non posso permettermi e comunque non farei grandi gesti (regalarmi un lungo viaggio sarebbe una fuga), con l’amore che ho vivo da sola e anche se con l’ultima influenza non ho potuto sentire il profumo, pulisco la casa di fondo con il sole di inverno. Con l’amore che ho sistemo i libri, decido quali quadri e dove. Con l’amore che ho faccio progetti per il futuro, con timidezza, consapevole che tutto potrebbe cambiare e che io dovrei tornare a ricostruirmi, e non importa perché il futuro che avrò lo sto costruendo non più immaginando, e con il mio essere, finalmente, presente.

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Va tutto bene.

Hai fatto tuo il nome che ti ho dato io. Ti ci avevo battezzato per giocare, circa seimila giorni fa.

Non ho portato niente di tuo con me, i ricordi, al momento, sono indelebili e abbondanti. Tu hai ancora tutte le nostre cose e la sindrome da accumulo.

Le hai parlato di me. Anche io parlo di te, alle persone che ci conoscono, gli amici comuni, i conoscenti, i colleghi di lavoro… parlo di te anche alle mie nuove amicizie, quelle che si chiedono perché sono brusca, fredda, acida, distaccata, anaffettiva.  Le nuove amicizie che si rendono conto (sempre e subito) che io arrivo da un viaggio nell’altro mondo. Il bagaglio di esperienza che mi portavo dietro è il nostro, non il mio.

A volte ho ancora voglia di condividerti cose, è una sorta di sindrome da arto fantasma, di istinto prendo in mano il telefono, poi mi ricordo e lascio stare. E son sette mesi dal mio andarmene e quasi un anno dall’inizio del dolore lancinante.

Va tutto bene. Non so come sia potuto accadere, sino a non troppo tempo fa mai ci avrei creduto ma va tutto bene. Non so quanto durerà questo momento di grazia e lo dico sottovoce che oggi, ora, in questo istante, io sono felice. Ho molti problemi, quelli che hanno tutti… chissà se questo mese riesco a pagare le bollette, forse è meglio che stasera io vada a mangiare dai miei che ho finito tardi è il frigo è vuoto, mi serve un cappotto che l’inverno sta arrivando, voglio fare assolutamente quelle analisi perché a volte sto proprio male, mi si è rotto lo sciacquone del bagno e adesso come faccio? voglio chiamare la mia amica e non ho mai un momento libero, sono preoccupata per la salute di altri, il ciclo va e viene quando vuole, l’erba del giardino ha raggiunto altezza sequoia. Pensierini, a volte problemi, come li hanno tutti è solo che da poco affronto da sola. Ce la sto facendo e di come ho risolto con lo sciacquone fa anche un po’ ridere.

Ho un nuovo bagaglio di esperienza, è solo mio a questo giro.

Ho anche un bagaglio di esperienza con persone che mi sono state vicine in questi mesi, persone per le quali sono Erika, Erika e basta, nome non accostato al tuo ne a quello di altri.

A volte fa ancora male ma oggi sono felice, sto bene, va tutto bene… mi pareva importante dirlo.

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servizio clienti

E’ da un paio di settimane che ho iniziato a limitare le mie uscite serali. Un po’ che sono stanca e la stagione è stata particolarmente pesante, un po’ che inizia a fare buio prima delle venti, mi prende quella voglia di casa, caminetto (che non possiedo ma immagino), libro, film, o musica, ma in cuffia ché le mie nuove vicine hanno una certa età e ho paura di disturbare.

In una delle mie serate casalinghe è andato tutto molto bene. Ho cenato con calma, ho bevuto un calice e mezzo di vino, ho fumato una sigaretta affacciata alla finestra… riflettevo sul panorama fuori. Sino a non troppo tempo fa vivevo a un quarto piano, se mi mettevo in terrazzo, di sera, potevo vedere Marghera, il polochimico, le luci. Ora a Marghera ci vivo (di nuovo), sono al piano terra. Dalla finestra vedo gli autoctoni che mi passano così vicino da potermi sentire respirare, poi le case popolari e un parchetto trascurato. Mi è suonato il telefono, ho pensato fosse un’amica, mio fratello, la mamma… Il numero a display era a prefisso 02, ero serena, il mio lavoro lo avevo fatto, ho pensato di lasciare che potessero farlo anche altri.

La donna al telefono mi ha chiamata per cognome, signora Favaro? io ho confermato, si è presentata come Alice del servizio clienti Sky, si scusa per il disturbo, cerca disperatamente il signor B., da due giorni, per una promozione. Ho sorriso, il signor B. non risponde mai al telefono quando vede un numero che non conosce, per i servizi che avevamo attivato in quella casa, il numero di emergenza era il mio. Le dico che è normale, glielo spiego che lui non risponderà, lei allora mi chiede se posso provare a passarglielo, io le dico (cercando di non far trasparire emozione) che non viviamo più insieme e che però, se vuole, posso riferire un messaggio tipo: se vedi uno 02 che ti chiama con insistenza rispondi. (peraltro il signor B si lamenta da anni del fatto che i fornitori dei servizi non proponevano mai promozioni ai già clienti, insomma… mi sono sentita come se potessi far contenti entrambi). Lei ha detto sì, ha ringraziato, ci siamo salutate. Sono tornata alla finestra, pensavo al fatto che lo avrei avvisato l’indomani.

Una mezz’oretta più tardi il mio telefono suona di nuovo. Era di nuovo Alice, ho pensato di non averla convinta sul che lo avrei avvisato, o che, avendo compreso del mio cambio indirizzo, volesse propormi di essere nuova cliente. Invece… -Scusi se la disturbo di nuovo signora Favaro, è che ci sono rimasta male, mi capita spesso di ricevere risposte sul genere… separazioni, divorzi, a volte anche morti improvvise, oggi però ci sono rimasta male- già a quel punto avevo un groppo alla gola, lei  ha proseguito – mia sorella si è lasciata da poco, stavano insieme da quindici anni, credevamo nel per sempre e lei non sa che giorni stiamo passando, perché, anche se a mia sorella non lo diciamo, stiamo male tutti – io capisco quello che dice, lo capisco bene, così bene che mi sento di rassicurarla, le dico che per me sono passati mesi, che è stato difficile… ogni tanto lo è ancora, ma poi, piano piano, si torna in piedi. Lei sospira, io mi ricordo immediatamente del periodo in cui pensavo che non ne sarei uscita mai, glielo confesso. Le racconto di giorni passati distesa sul pavimento a piangere, di notti in cui mordevo e tiravo pugni al cuscino, le racconto di aver perso dieci chili, della mia incredulità davanti ad affermazioni non contestabili. Poi le racconto della mamma, di mio fratello, delle mie amiche, dei miei amici. Le racconto delle serate in cui era troppo presto per uscire, per me, ma in realtà avevo già passato davvero troppo tempo immobile. Le dico che non avevo voglia di lavorare, mangiare, sorridere, pensare a una nuova vita… poi le dico che quando sono tornata a lavoro è stato il primo passo per me stessa, che quando ho iniziato a mangiare di nuovo, e per il gusto di farlo, ho anche ripreso a sorridere. Le dico che per la nuova vita è stato più lungo e che è tuttora in corso ma che so che andrà bene.

Poi sorridiamo, insieme, io le dico grazie, lei mi dice grazie, ci salutiamo.

Ieri mi ha chiamata il servizio clienti vodafone, stavo lavorando, era fonte di disturbo… invece di dire no, grazie, ribattere con le medesime parole alle mille alle insistenze, buttare giù in malo modo, ho chiesto se potevano chiamarmi dopo le venti.

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ho il gelato in congelatore.

Il mio primo gommone era bianco, verde chiaro e ovviamente c’era una scritta TUG BOAT enorme e arancione su tutti e due i lati, da poppa e da prua. Il mio primo gommone non era più lungo di un metro direi e ogni anno, quando lo si preparava per tornare al mare, aveva quell’odore lì di sabbia, acqua salsa e gomma, chiusi in garage da troppo tempo. Il mio primo gommone era un rimorchiatore. Il mio primo ricordo di estate è la scritta arancione Tug Boat.

Il secondo ricordo di estate è la piazza dello spazio deserta e io in piena canicola che mi impenno con la Cinzia che era una bicicletta di fichi anche se non era una bmx.

Elda e Angelino, con cui ho passato tante estati, tanti inverni, tanto di tutto anche se non abbastanza, sono il mio terzo ricordo di estate. Elda mi faceva usare il suo pianoforte, mi insegnava le canzoni della Patty Pravo, cantavamo insieme La bambola, Elda in genere si commuoveva, poi arrivava Angelino, si arrabbiava perché la vedeva con le lacrime agli occhi e lei di solito attaccava a piangere di più, ma per motivi diversi.

Le estati coi nonni in montagna. Il periodo in cui mi sono buttata sull’horror, operazione horror splatter, libri horror e film horror che c’era lo zio tibia su italia 1 e Poe sul comodino. Poi a una certa estate è arrivato anche Dylan Dog. Comunque è andata così perché avevo vissuto un episodio di vita reale un po’ horror, (i protagonisti erano il lato della faccia di uno a stretto contatto con il piede di un cavallo), avevo bisogno di sostituire un ricordo scioccante con sceneggiature terrorizzanti.

Le estati con le amiche: due.

Le estati col moroso: una.

Le estati senza moroso: una.

Le estati col moroso ma non quello di prima, un altro: cinque.

Erano dodici anni che per me non era più estate, cioè lo era ma in alta stagione lavorativa, non esisteva il mare, non esisteva la montagna, non esisteva il gommone con la scritta arancione, esisteva a malapena il gelato e l’anguria. E ora è duemilaquindici, lui non c’è e io faccio tornare l’estate. Sono stata al mare e ho compreso che il tempo per la spiaggia, se ci tengo, riesco a ricavarmelo. Non ero così abbronzata dall’inverno 2008. Sono stata in piscina, non è la mia cosa preferita ma mi sono resa conto che mi fa ridere (e comunque c’è un bagnino guardabilissimo). Sono stata alle feste d’estate, le notti gialle, bianche, rosa… sono stata ai concerti di cover band, agli eventi da fighetti con le donne bellissime e  tiratissime e gli uomini vestiti tutti uguali (in camici bianca), sono stata seduta per terra sull’erba del forte marghera, ho fatto molte foto che non ho condiviso e che continuerò a tenere per me, ho visto un paio di albe, ho mandato molti messaggi, ho cantato a tutti i karaoke (non col microfono, in coro col pubblico), ho ballato “dieci ragazze per me” ho sperato ci sarebbe stata “con il nastro rosa” poi, ma non è accaduto. Ho corso a piedi nudi per strada, sotto a un’acquazzone, ero vestita di bianco.

Ho comprato un’anguria… accadeva giorni fa, è morta insieme alle ciliegie, nel silenzio del frigo, mi occuperò della sepoltura nel cassonetto dell’umido in serata. Ho il gelato in congelatore ma l’ho mangiato solo una volta.

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(quasi) tutti i letti della mia vita*

* questo post è stato scritto venerdì 10 aprile, a qualche ora della notte. E’ rimasto tutto il tempo ad aspettare che non succedesse qualcosa di brutto.

Oggi è un giorno importante. Fossi coraggiosa direi che il giorno fondamentale. Invece ho molta paura, scorsa notte sono successe delle cose che hanno influito nella mia scelta, ne sono felice e niente è a caso.

La prima casa era a Mestre, ho ricordi molto vaghi perché ci ho vissuto dagli anni zero ai cinque. Quello che ricordo bene è una rampa di scale da cui sono rotolata giù una volta e il cancelletto di legno colorato che mi ha costruito il nonno per evitare che cadessi di nuovo. Ricordo che papà aveva una macchina nera, ricordo che a un certo punto avevamo un cane, non so dire però quando sia arrivato. Ricordo i sassolini sul giardino, il mio primo amico d’infanzia che si chiama Denis.

La seconda casa era a Malcontenta ed era enorme. Avevo tra i cinque e gli undici anni. Ricordo quasi tutto. Quello che più mi rimane a cuore è la pasticceria dei miei, il primo pulmetto, i primi gatti mai avuti (che erano mezzi randagi e mezzi di casa e la gatta è rimasta incinta due volte, così ho visto anche i gatti appena nati). Mi è rimasta la vicina di casa, le lezioni di piano, la domenica col grande pranzo a casa sua, la sua fattoria. La fattoria, in realtà, la seguiva più suo marito, lei seguiva l’orto. Così ricordo Angelo, suo marito, il mio primo migliore amico, la prima volta che una persona è morta. La prima volta che… il suo cane si è lasciato morire anche lui, e succedeva pochi giorni dopo, ricordo che ho capito l’amore assoluto. Ricordo che mi sono sentita sola, che desideravo un fratellino, che dopo qualche anno, per fortuna, è arrivato. Ricordo che quando dovevamo trasferirci ho pianto, anche se sapevo che saremmo andati a Marghera e a me piaceva tanto Marghera, avevo i cugini a tanti amici anche lì. Resta che ho pianto.

A Marghera ho aumentato le amicizie, è stato faticoso perché ero in castigo un giorno sì e l’altro anche, ma ci sono riuscita. La casa era ed è piccola, il giardino era ed è meraviglioso. La prima volta che mi sono innamorata ero a Marghera. L’ultima volta che mi sono innamorata, anche. Ci sono stata dagli undici ai ventisei anni, a Marghera, il periodo più lungo in cui ho abitato in un luogo, i luoghi sono due. Casa dei miei e casa del nonno. A Marghera è morto il mio primo cane e anche il secondo. A Marghera abbiamo avuto di nuovo molti gatti, mezzi randagi e mezzi no, i tempi però sono cambiati, i randagi sono stati sterilizzati dall’enpa (si vede perché manca un pezzetto di orecchio). A Marghera, da giovane, non mi sentivo mai troppo al sicuro.

A Spinea avevo un appartamento che a volte era enorme, altre si soffocava. Avevo delle cose ma non erano mie, erano nostre, ci ho abitato dieci anni lì, ho fatto amicizia con pochissime persone. A noi non interessava fare amicizia, ci sentivamo a posto, vedevamo i vecchi amici, in alternativa, stavamo così bene insieme che non era importante uscire. Eravamo importanti solo noi e i nostri gatti.

Ho fatto la proposta per un appartamento, è stata accettata. E’ a Marghera, di nuovo. E’ qui perché quando sei innamorata e vai a convivere ti va bene anche un luogo distante da tutto e tutti, quando sei sola cerchi di essere vicina a tutto. A Marghera c’è tutto. Le prime cose che ho acquistato per l’appartamento sono le lenzuola e gli asciugamani. Le ultime, una tostiera e la macchina del caffè (che poi mi sono state regalate). A Marghera, ora, mi sento al sicuro anche a girare da sola di notte.

*oggi è il 13 giugno, domani a quest’ora sarò a pulire, sistemare, organizzare. Non so se lo farò in silenzio o con la musica, non so quanto impiegherò e per una volta non mi interessa, non so se starò bene subito o se mi servirà ancora più tempo. Quello che so è che sono a un punto difficile del sentiero e comunque posso solo andare avanti.

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senza niente da dire.

La prima cosa che ci tengo a dire è che mi dispiace.

Mi dispiace per tutte le persone a cui ho detto: ci vediamo prossimi giorni. Poi è passato un mese, poi due, e devo ancora vederle. Mi dispiace per la mia famiglia, in questo periodo non sono stata la Kerika di sempre, non che mi sia scostata completamente da me stessa ma ho avuto dei momenti di furia vera e propria, di egoismo, di paura, e ho tradito queste emozioni con loro che mi stavano a tiro. Poi mi dispiace anche per me, la costante del periodo sono due. Prima la sfiducia, la sensazione perenne che posso fidarmi veramente solo di pochissime persone, davvero poche. Per fidarmi intendo la piena consapevolezza che agiscono per il mio bene, anche nel caso in cui sbaglino (perché di fatto tutti si sbaglia). La seconda costante è la felicità che deriva da azioni compiute da me, il lavoro, il lavoro, il lavoro. E se non lo si notasse, lo scrivo per esteso che la seconda costante altro non fa che alimentare la prima.

Non c’è nulla di sbagliato in tutto questo. Anzi, è facile. Prendi un lavoro, digli che l’ami, confezionalo al tuo 100%, consegnalo, lascia che il cliente soddisfatto ti sorrida e ringrazi. Aspetta San Paganino.

Non c’è nulla di sbagliato nel perdere la fiducia. Tu prendi un diretto sul cuore naso in un giorno di inverno, alla volta di primavera, per non saper ne leggere ne scrivere, sei ancora  lì che schivi, a priori e stai sicuro che la prima cosa che ti proteggi è il cuore naso.

Quello che mi fa dispiacere è che non era così brutto quando le contentezze mi derivavano da altri. Quello che mi fa dispiacere è che ogni tanto vorrei essere leggera, serena, evitare di pensare che chi ho di fronte voglia farmi male.

Mille anni fa, quando facevo equitazione sul serio, ero diretta verso una curva del maneggio, quella che non ti permetteva di vedere il panorama perché c’erano due pini e una siepe a nasconderlo, il cavallo, Fritz, ha dato uno scartone (lo scartone è quando stai proseguendo in una direzione, convinto di procedere in quella direzione ma a un certo punto il cavallo non è d’accordo e tende a virare con poca delicatezza, diciamolo pure che quando un cavallo fa uno scartone è più facile cadere a terra che rimanere in sella, proprio perché non te lo aspetti). Sono rimasta in sella, ci sono rimasta perché avevo il mio insegnante a urlarmi cosa fare. Non appena il Fritz ha quietato, abbiamo fatto un test per vedere se mi ascoltava, abbiamo galoppato in un piccolo cerchio, poi, dubbiosi, ne abbiamo fatto un altro. Cambio diagonale e barriere. Poi ho ripreso il percorso che stavo eseguendo prima dello scartone, non appena sono arrivata in prossimità della stessa curva io mi sono agitata e Fritz anche. Mi ha fatto un altro scartone, tanto me lo immaginavo e non ho neanche preso paura. Il mio insegnante, a quel punto, mi ha detto così: Erika guarda che secondo me il Fritz prima ha visto un mostro dietro alla siepe, adesso, tutte le volte che passa li davanti avrà paura del mostro.

Io ho iniziato a ridacchiare, avevo dodici anni ormai e sapevo che non c’era nessun mostro, neanche alla prima. Sapevo anche però che i cavalli sono piuttosto pessimisti e nel dubbio che ci sia un mostro o meno, tra restare e darsi alla fuga, si danno alla fuga. Ho smesso di ridacchiare nel momento esatto in cui il mio insegnante mi ha detto che dovevo essere io a fargli capire che non c’era nessun mostro. Ci abbiamo impiegato quasi tutta l’ora di lezione, lui era davvero terrorizzato dal mostro. Quando ci è passato senza scartare alla prima volta, io sorridevo ma il mio insegnante mi ha detto che non avevo finito. Non era abbastanza passarci senza permettergli di guardare o passare distanti di metri. Lui voleva che il Fritz ci passasse senza sentirsi nei guai. E’ accaduto una ventina di minuti dopo. Altri dieci minuti più tardi era così sereno che pareva si fosse dimenticato di essere in curva.

Quello che non ho capito è se il Fritz crede ancora ci sia il mostro ma si sente in grado di affrontarlo, oppure se ha capito che non c’è nessun mostro e quindi non si sente più in pericolo.

Un’altra cosa che ho capito è che vorrei che qualcuno mi prendesse per mano e mi facesse passare la paura del percorso, nelle curve sì ma anche sul dritto.

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il giorno, la notte e altre varie.

Dire che ho una doppia identità sarebbe quantomeno eccessivo. Resta che quando arriva la sera, una volta smaltite le ultime mail, rilette le ultime revisioni, dopo la cena, dopo anche la doccia, mi infilo il costume da notte. Non ho detto il pigiama e il costume da notte è più a livello mentale che di abbigliamento, anche se devo ammettere che faccio caso anche a cosa indosso, la canottiera da sera nera non manca mai nel mio costume da notte, perché non si sa  e se mi viene di andare a ballare almeno ho la canottiera giusta. A livello mentale mi alleggerisco, come non facevo da anni. A livello mentale, se passa uno carino e mi sorride, sorrido anche io, prima non lo facevo perché di allargare il cerchio di amicizie non mi andava. Con il mio costume da notte riesco a ballare per ore, riesco a tornare a casa alle cinque (o oltre) senza sentirmi in colpa con nessuno. Riesco ad andare a fare merenda alle tre, al panificio sotto al cavalcavia, a volte è stato un croissant, altre un cappuccino e pane e mortadella. Con il costume da notte proteggo le amiche dagli ubriachi stupidi e invadenti. L’ubriachezza mi può star bene, il molesto lo combatto.

Di giorno sono una donna timida, spesso schiva, quando mi fanno le battute spesso non rido. La maggior parte del tempo sono così concentrata sul lavoro che le persone non le vedo proprio (non tutte, ovvio, parlo di quelle in transito). Di notte entro in un locale e saluto ad alta voce, mi guardo intorno, controllo se c’è qualcuno che ho già visto, non per interesse… è semplice controllo del territorio. Di giorno non ne ho bisogno, di notte sì. Eccome. Di giorno ho la consapevolezza del mio lavoro, del ciò che so fare. Di notte sono consapevole di altre cose, per esempio che andare a ballare mi mancava, per esempio che è bellissimo cantare in macchina con un’amica, per esempio che fare amicizie nuove a volte è proprio brutto ma più spesso è divertente.

Di giorno sto col gatto dei miei, una di queste notti ho fatto amicizia con un riccio in giardino.

Di giorno sono Erika, al massimo Kerika, di notte sono Kerika ma più spesso  Ara ea Rossa.

Ho un tatuaggio sul polso, c’è scritto Kerika Effe. Di giorno è un tatuaggio, di notte anche.

Questa mattina, era giorno, mi ha fermata un ragazzo. Mi ha detto “ciao” gli ho detto ciao anche io. Mi ha chiesto se lavoravo lì dov’ero, ho risposto che sì, lui ha sorriso, io no. Poi mi ha fissata in silenzio, io ho capito. Lui lo ha confermato: ti chiami Kerika? ha chiesto. Mi è venuto da ridere perché il mio polso non era esposto. Lo avevo proprio già visto in un luogo dove ogni tanto vado a ballare, me lo sono ricordato subito perché di notte, come ho detto, controllo il territorio. Mi era simpatico anche quella notte ma non avevamo fatto amicizia perché ero andata lì a ballare, se voglio fare conversazione vado altrove. Nonostante mi abbia fatto piuttosto ridere, vedermelo avvicinarsi oggi, mi sono tenuta la risata per me e ho deciso di salutare con cortesia e andarmene, perché era giorno.

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good vibrations

Che quello che sto vivendo è un periodo un po’ così, è stato detto. Chi mi conosce bene sa esattamente quello che nella mia vita è cambiato, chi mi conosce bene è una mia grande amica o amico, è di sicuro una persona di fiducia, di rado si tratta di una conoscenza superficiale, ma è successo di averlo raccontato anche a chi mi ha attraversato la strada e mi ha beccata mentre piangevo.

Sto meglio.

Non so come sia andata esattamente ma nonostante tutte le mie notti inquiete una mattina mi sono svegliata serena, non disperata. E’ stato necessario avere la mia famiglia al mio fianco, gente che non ti molla neanche un minuto. E’ stato necessario accarezzare dei cavalli, due. Salire sopra a uno, terrorizzata, tremante ma anche piena di fiducia, lui non mi avrebbe fatta cadere, lui non mi avrebbe fatto del male… e non lo ha fatto. E’ stato necessario andare a Roma, provare a ridere per poi invece scoppiare a piangere ma con la migliore compagnia di sempre, son dovuta andare a Bologna, rimanere seduta per terra su una piazza a fumare sigarette a pensare che la mamma non sarà mai contenta di vedermi seduta per terra in una piazza, ma io ci sto bene. E’ stato necessario sacchettare le palle alla gente, gente che conosco e gente che ho solo sfiorato, ricordarmi che corteggiavo un progetto da fine settembre, sempre lo stesso, se c’era un momento giusto per metterlo a fuoco e definire le mie responsabilità era proprio  oggi ieri, sì, e ho rischiato di mollare, di arrendermi, di lasciar stare, invece ho stretto un po’ di più, mi fanno male le mani per quella stretta ma il callo è necessario anche lui. E’ stato necessario dire molte volte “grazie” anche se in realtà pensavo “vaiafareinculo”. Ho dovuto staccarmi, veramente a questo giro, fa male, fa sempre male ma immagino che una guarigione senza dolore non sia possibile. Sono dovuta cadere, stare sdraiata sul pavimento del bagno per ore, buttar fuori la rabbia che partiva dalla bocca dello stomaco. E’ stato necessario capire, prima, non portare rancore, poi. E’ stato necessario tatuarmi il mio nome sul polso per ricordarmi chi sono, per tenere bene a mente chi non sono più.

Sono Kerika Effe e sono di Marghera, sento delle buone vibrazioni, il resto verrà con calma.

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I bambini a volte non lo sanno e Valerio.

Ieri ho visto Valerio, l’ho incrociato in una pasticceria.

Quando ero bambina io a Marghera ci andavo un sacco, ma proprio tanto. Anche se non abitavo ancora lì. I miei genitori sono di Marghera, così come i nonni, gli zii, i cugini… Ho un intero albero genealogico localizzato a Marghera. La prima volta che ho visto Valerio ero a trovare le cugine, avremmo avuto sui sei, forse sette anni. Mi ricordo che stavamo passeggiando in via Trieste, la cugina più grande, quando ci siamo trovate in prossimità di Valerio, mi ha detto “non salutare”, la cugina più piccola si è nascosta dietro di me.

Valerio è alto, io lo guardo ma come mi ha detto mia cugina, non lo saluto. Lui ci guarda, sorride, poi mi accorgo che non sta sorridendo esattamente a noi, sorride in generale. Lui cammina, un po’ sorride e ci guarda e un po’ vede al di la di noi e continua a sorridere. Io mi accorgo che quell’uomo ha qualcosa di particolare rispetto a altri uomini che ho visto ma sono piccola e non riesco ad afferrare cosa.

Poi son passati anni e io mi sono trasferita a Marghera in via definitiva. Credo sia capitato intorno ai miei quattordici anni di aver visto di nuovo Valerio, era con papà. Li ho visti parlare davanti al bar di via Trieste, vicino al semaforo. Mi sono avvicinata per salutare papà e Valerio mi ha salutata, mi ricordo che non ho capito subito che mi stava salutando, mi ricordo che mi sono accorta che Valerio ha difficoltà a essere chiaro quando parla. Quando io e papà ci siamo allontanati, diretti verso casa, ho saputo che il nome di quell’uomo è Valerio. Curiosa come una capra gli chiesi se fossero amici e come mai visto che mia cugina mi aveva detto di non salutarlo. Papà mi spiegò che invece Valerio era proprio da salutare, che erano amici, che gli era successo qualcosa quando era un bambino e allora parlava e camminava in maniera diversa e soprattutto che era un buon uomo e molto solo. Papà mi disse di salutarlo, di salutare sempre.

L’ho salutato tutte le volte che l’ho visto, sempre. Col tempo il suo modo di parlare ha iniziato a suonarmi comprensibile, non siamo mai diventati amici come lo era con papà ma buoni conoscenti sì.

Ieri sera avevo un appuntamento con la mamma, in pasticceria.

Valerio era al banco, prendeva un aperitivo. Era da tanto tempo che non lo vedevo, mi è uscito un sorriso molto spontaneo. Non lo avevo mai pensato in questi anni, ci sono persone che conosco che purtroppo non mi vengono mai in mente, a meno che non le veda. Credo abbia intorno ai sessant’anni ora, forse di più, li dimostra tutti. Quando si avvicina a me e la mamma mi accorgo che ha messo su un bel po’ di pancia, la barba non è fatta, il maglione che indossa non è pulitissimo, mi chiedo se c’è qualcuno che si prende cura di lui. Lui chiede, ad alta voce, con la sua parlata speciale “come sta Ivano” non dice neanche ciao, chiede solo di mio papà. Io sto per aprire bocca, la mamma però è più veloce, gli spiega che in questo momento può solo stare a letto e che la situazione è un po’ così. Io cerco di sorridere perché vedo che nel viso di Valerio si forma una maschera di dolore, la mamma aggiunge che sta lavorando con una terapista, a Valerio cala una lacrima sulla guancia e rimane così a bocca aperta che un rivolo di saliva gli cola sulla maglia. La mamma è svelta “puoi venire a trovarlo sai”, lui si rianima “si può?” chiede, lei risponde di sì, io annuisco con un sorriso. Valerio dice che forse viene domani ma dobbiamo chiedergli di ripetere tre volte prima di capire.

Ci congediamo con sorrisi e poche parole che tanto non servono, quando Valerio esce dalla pasticceria le commesse iniziano a urlare “Auguri!” così scopriamo che era il suo compleanno e a ruota che ci ha lasciato due spritz pagati.

Il mio primo pensiero di stamane era rivolto alle cugine. Mi dispiace molto per loro, non le vedo da quasi vent’anni spero non abbiano continuato a perdersi qualcosa.

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Io e il mio diploma di agente di viaggi stiamo bene insieme.

Ho un diploma di agente di viaggi, lo confesso. Ho esercitato poco in quel ruolo perché… mi era piaciuto molto lavorare nell’agenzia di viaggi inglese, moltissimo, non mi era piaciuto lavorare in agenzia di viaggi in Italia. Al tempo non c’era la grande crisi, non c’era la disoccupazione, forse un pochetto c’era ma io ero una ragazzina fortunata (entro i venticinque  si è ragazzini) e sono sempre riuscita a trovare un lavoro dietro l’altro, miglioravo sempre. Ero molto brava, non lo dico per tirarmela, è un dato di fatto, in Inghilterra ero così brava che mi hanno dato due promozioni, mi sentivo gratificata. In Italia ero brava lo stesso ma per motivi che non so i titolari avevano la tendenza a relegarmi a lavori molto bassi. Per esempio, un tempo i biglietti aerei venivano stampati con una macchina infernale, all’agenzia rimaneva la copia rossa del biglietto. Ordinavo e archiviavo le copie rosse. Ci sta, sei l’ultima arrivata ed è giusto che ti sbatti a fare le cose più infami ma quando ho visto che a distanza di mesi la prospettiva di crescita non si palesava, ho salutato con cortesia. Ho lavorato in un tour operator in Italia, a Mestre, poi. Quello era un posto davvero fico. Il titolare godeva di una malareputazione al tempo, una mia amica mi aveva detto: guarda che se vai a lavorare lì, quello ti mangia e ti sputa. La mia amica sbagliava, sbagliavano tutti. Mi sono trovata molto bene, mi sono resa conto che il back office è interessante, avendo lavorato in agenzia viaggi ho avuto modo di vedere come andava lì dietro ed è stato bellissimo. Poi mi è stato offerto un altro lavoro. Lo stipendio era alto, avevo ventudue anni mi pagavano più o meno due milioni di lire al mese, netti, puntuali, con contratto, per mezzo di assegno. Aveva poco a che fare con l’agenzia viaggi, serviva l’esperienza da agente perché lavoravo di prenotazioni con l’alberghiero ma non era agenzia, era un’altra cosa. Il capo era una persona nevrile, zero eleganza, zero contegno, zero umanità. Il giorno che si è licenziata la prima ragazza ero lì da meno di un mese, ha tirato due pugni sulla mia scrivania e mi ha bestemmiato in faccia. L’ho giustificato, aveva subito la perdita di un dipendente. L’ho giustificato anche quando, perso un cliente, ha rovesciato il mio telefono per terra. L’ho giustificato quella volta che ha tirato un calcio alla porta. Quando se l’è presa con me per cose di cui non avevo responsabilità ho deciso che era pericoloso stare lì, che anche se ero poco esperta, un uomo, un datore di lavoro che ti bestemmia in faccia e prende a calci e pugni le cose poteva essere pericoloso, non trovavo salvifico che facesse così con tutte. Lì me ne sono andata senza salutare, lo ammetto, ho mandato una raccomandata e non mi sono più presentata in quell’inferno.

In questi anni mi sono sempre arrangiata con i viaggi, sempre. Alla volta della Tailandia siamo andati in agenzia, era articolato e io volevo riposare, non volevo sbattermi per gli spostamenti, anche usando l’agenzia ho sentito il bisogno di organizzare la più maestosa escursione della mia vita per conto mio. L’ho infilata a perfezione tra un trasferimento e l’altro di quelli dell’agenzia. L’agente di viaggi mi aveva detto che avrebbe potuto farla lui, gli ho risposto che anche no, doveva essere il giorno più indimenticabile della nostra vita (lo è stato) me ne sono occupata io apposta.

Uso ancora un atteggiamento simile, pur facendo un lavoro diverso, i miei clienti sono tutti importanti ma qualcuno, a volte, richiede una priorità o un modo operativo straordinario. Se mi scrive Andrew scatto in piedi sull’attenti e mi infilo un coltello in bocca, se mi scrive Ben anche, se mi scrive Fabien mi alzo e faccio ma so già che la richiesta è meno impegnativa, o comunque gestibile senza dover minacciare i miei fornitori di morte.

Ieri sono stata in un’agenzia di viaggi. Quello che volevo io era un catalogo Europa, il maggior interesse era per Londra e Berlino. Desideravo sfogliare pagine con alberghi soft porno, desideravo le escursioni possibili, le cose da vedere, le gite fuori porta consigliate (a parer mio se vai a Londra e hai tempo, come minimo un giretto a Bath te lo fai)… volevo questo. Quello che è successo, invece, è che la ragazza si è persa in archivio, ero dispiaciuta dal non vederla tornare perché sapevo già… gli archivi dei cataloghi si stanno emancipando e a breve chiederanno riscatti per le impiegate. Quando è tornata (minuti infiniti) imbracciava due cataloghi color giallo senape, mi dice che quelli belli devono ancora arrivare e che però questi sono interessanti perché sono abbinati a corsi di lingue, mi chiede se voglio fare un corso di lingue.

no.

cioè, davvero, no. Voglio vedere gli alberghi soft porno, gli spettacoli musicali, gli orari del cambio della guardia, le partite del Chelsea…

Son tutte cose che guardo io, con la internet, quando devo organizzarmi qualcosa, per me o per gli amici. Chiedete ai miei amici che sono passati a Venezia, ho creato per ognuno di loro una lonely planet made by kerika. Il mio collega che era lì con me mi ha assicurato che lui ha già viaggiato con quell’agenzia e si è trovato bene. A me la ragazza piaceva, era dolcissima, adorabile, sorridente, l’avrei abbracciata ma non mi pareva il caso. Mi sono ricordata del mio lavoro di agente solo molte ore dopo essere uscita da lì, un lavoro che non fo più da anni e di cui mi è rimasto in mente solo un grande piglio commerciale (che però, ammetto, è stato allenato per anni grazie a ciò che faccio ora), mi è rimasto a memoria il codice di quasi ogni aeroporto del mondo, mi è rimasta la curiosità di pensare a tutte le esperienze fattibili in un luogo, e direi che basta.

Posso affermarlo giacché, se avete letto sino a qui, è lampante, non è l’agenzia di viaggi che non va (qualsiasi agenzia), sono io che ho sempre questa fastidiosa mania di fare la punta al cazzo. Sempre.

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Un mese

Oggi è un mese esatto dalla vigilia di natale. Quel giorno lì mi sono successe così tante cose che anche se le ricordo tutte faccio un po’ di fatica a dare un ordine temporale corretto. Ho due dati certi e collocabili, il primo sms della mattina e l’ultima mail della sera. Questi due portenti tecnologici segnano inizio e fine di uno dei giorni più lunghi e articolati della mia vita.

Ho ricevuto svariati complimenti in questi giorni:

ti vedo bene.

che bella abbronzatura

hai gli occhi luminosi

hai la pelle radiosa

sorellina sei una gran figa

Non sono stata in vacanza, non sono andata al mare, non mi sono divertita. Ho passato (anche se ammetto di non esserci andata tutti i giorni) trentatrè giornate all’ospedale dell’angelo. Mestre. Non andavo per me, era per papà. Il punto è che l’inizio del suo incubo collimava perfettamente con un altro mio incubo e quindi è scattato il meccanismo del: se qualcosa può andare peggio di così, lo farà. In sintesi, al di là di papà, ho passato due mesi di merda.

C’è stato un momento in cui il mio peso era 49 e qualcosa, quando sono arrivata ai 47 e qualcosa ho iniziato a preoccuparmi perché se sei alta un metro e mezzo e bruci il 10% del tuo peso in meno di un mese, non sembri dimagrita, sembri consumata.

Mi sono pesata questa mattina, 49,9. A fine estate ero intorno ai 54… non c’è stato il pranzo di natale, per ovvi motivi, a casa nostra. Abbiamo fatto una piccola cena il 25 dalla mamma, con i salumi e i formaggi buoni… tutto qua. Abbiamo aperto una focaccia, ne ho mangiata una fetta intera e una mezza fetta con Vale, che a lei piace la parte esterna con lo zucchero e le mandorle e a me la parte interna con la pasta morbida. Il 24 eravamo a casa di Nico, arrivati in un ritardo così clamoroso che mi vergognavo. Mi veniva difficile anche deglutire.

Mi sono abbronzata con metodi artificiali, ho iniziato ai primi di dicembre e per dare l’aria di una che sta bene non era abbastanza.

Ho visto la mia parrucchiera molte più volte in questo mese che in tutto l’anno. Non era ancora abbastanza.

Mi sono presa dei vestitini, meglio ma…

Ho investito nell’attività sportiva e nello yoga… Ho fatto il saluto al sole, mi sono scoperta senza fiato. Mi sono odiata perché mi pareva di aver buttato via qualcosa di bello a stare ferma per mesi. Ho iniziato un’intensa attività cardio in collaterale allo yoga. Ho iniziato a camminare più spesso. Ho ripreso il saluto al sole. Va meglio.

L’abbronzatura è sempre artificiale ma l’attività fisica, indubbiamente, mi distrugge per rigenerarmi. Qualche sera fa mi sono addormentata da seduta in divano, il giorno dopo ero in formissima. Negli ultimi dieci giorni ho notato che quando mi alzo alla mattina ho una fame da orso. Non avevo mai avuto fame di mattina.

Ieri sera ho bruciato una cosa come 270 calorie, lo so perché ho una di quelle applicazioni che controllano tutto quello che faccio. Non c’è più il mio consumarmi di qualche tempo fa, c’è il mio corpo che mi dice che è vivo, che sta bene, che se io lo nutro poi lui mi risponderà al suo meglio. Non c’è più la tachicardia che mi prendeva nel mezzo dei giorni e nel cuore della notte. C’è il mio battito regolare e la risposta allo sforzo. Non c’è più quella sensazione di peso sul petto. Ci sono due gambe leggere e due braccia forti. Non c’è più un’ombra scura che mi copre. Ci sono Io.

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Ricominciamo. (If you dare)

Questo dueequindici ha già ventuno giorni. Mi sarebbe piaciuto che il miracolo accadesse davvero e si portasse via (davvero) tutta una serie di eventi, dolori, imprevisti, disagi e altre cazzate che viste su un conto corrente apparirebbero con segno meno.

Questa cosa che sto scrivendo la dico per me ma ammetto che sto parlando di una tematica così ricorrente che pare perseguitarmi. E’ il ricominciamo.

Non è facile, in qualsiasi argomento della vita la guardi (amore, famiglia, lavoro, salute, a mo’ di oroscopo) è sempre complicato e lo è perché non si decide mai di ricominciare quando va bene. Si ricomincia sempre in situazioni in cui stai di merda; anche perché ricominciare in un contesto in cui le cose della vita andavano piuttosto bene sarebbe un percorso masochistico. (ovvio)

Sto ricominciando io e non sono sola, ho anche delle amiche che stanno seguendo lo stesso percorso anche se con scarpe diverse.

Per ricominciare veramente devi lasciare da parte il lordo e lavorare su di te sino ad arrivare al netto. Devi lasciare da parte le sicurezze, renderti conto che niente è davvero certo. Chiudere gli occhi e pensare che tutto quello che hai, che sia costruito o caduto dal cielo, potrebbe svanire non appena li riapri. E’ doloroso? sì. Molto. Ti viene voglia di urlare.

Allora urla. Urla sino a che hai fiato e poi, quando avrai perso anche quello e avrai eliminato anche l’ultimo lordo, ricomincia.

Si ricomincia dalle cose piccole, minuscole. Un tè caldo, una tisana, un calice due calici di chardonnay.

Si ricomincia a leggere, i pensieri e le riflessioni proveranno a disturbare la lettura ma sono seriamente convinta che un buon libro riesca a portarti via. I pensieri torneranno poi ma è importante definire il tempo per il libro e il tempo per i pensieri.

Si ricomincia a muoversi, quello che mi piace del muovermi è il dolore che provo il giorno dopo. So benissimo di avere le gambe anche se non fanno male ma a volte la vera consapevolezza  deriva dal dolore.

Si ricomincia a percepire lo yoga come parte di te.

Si ascolta musica diversa. La musica ha la tendenza a ricordarti eventi, belli e brutti, c’è bisogno di musica nuova e di eventi nuovi. Si prende un gruppo o una cantante/un cantante conosciuti, ma mai esplorati di fino, e via.

Si cerca un’esperienza nuova, a costo zero ma anche a pagamento. Io ho iniziato HICT (costo zero), è devastante ma bellissimo, qualche giorno fa ero in quad, di nuovo devastante e bellissimo.

Comincia a coltivare qualcosa di nuovo e di tuo. Ci sarà tempo per condividerlo ma ora è per te. Mi sono lanciata su piatti elaboratissimi ed era un solo per me, quando divento brava (sì, sono certa che lo diventerò) condivido.

Fai una passeggiata che sia solo una passeggiata, senza destino, senza movente.

A volte, a ricominciare, ti scopri arrabbiata, è normale… diomio, non è solo normale è addirittura giusto… però la rabbia nuoce, fa male, distrugge e porta il battito cardiaco ad accelerare, facci caso. Non nuocere, a nessuno ma in particolar modo a te stessa.

Ricomincia a volerti bene.

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Carlotta reloaded***

e niente, per quel che mi riguarda sono ancora emozionata, molto emozionata. Ho scritto qualche riga nel merito di questa emozione. La potete leggere cliccando qui sopra.

E se poi mi innamoro, pazienza

*** e Pickwick mi ricorda sempre troppissimo le piccole donne!

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ventiquattro

E’ la vigilia di Natale, da dove sto scrivendo io è mattina, mattina molto presto.

Mi sono alzata dopo una delle notti più in bianco di tutte le mie notti, ho acceso l’albero prima di farmi il caffè. Chi mi conosce lo sa che prima del caffè non c’è vita ma oggi ho deciso di variare la sequenza.  Oggi ho da fare, come tutti. Credo e spero che il mio “da fare” sia simile a quello di pochi. Gli ospedali, il ventiquattro di dicembre, fanno più male. Non è colpa loro, siamo noi, quelli che a Natale devi essere felice per forza e devi voler bene per forza. Io ce la sto mettendo tutta ma… provo a trovare il bello ma… credo che se esistesse il premio – Natale più brutto della vita di Kerika – questo avrebbe stravinto.

Quando le cose vanno male, le persone cercano di dare variazioni alle loro vite, lo so perché ho letto il libro dei dieci minuti di Chiara Gamberale. Io, qualche giorno fa, era un festivo, ho dovuto inventarmi un pulmetto per tornare a casa. Mi sono trovata, tra un cambio di pulmetto e un altro, con la mamma che al telefono mi diceva di stare attenta e io ero in un quartiere di Mestre che non vedevo da anni. C’erano negozi che non ho mai visto, persone di almeno cinque etnie diverse, luci natalizie che di domenica sera con la nebbia invece che scaldare raffreddano.  Ero sola come non mi sono sentita mai, per anni. Ed ero una straniera a Mestre. Però la variazione ha funzionato. Quando sono arrivata a casa (con molti sforzi e un’allungatoia di chilometri a piedi) mi sentivo bene, leggera, ho apprezzato che il riscaldamento fosse acceso, di avere del vino bianco in frigorifero, dei vestiti da casa (larghi, comodi, con installazioni di pelo di due gatti diversi), due testoline pelose che non vedevano l’ora di prodigarsi in fusette, a quel punto della mia giornata niente era dato per scontato. Nulla lo è più.

Oggi, con la storiella dell’albero acceso prima del caffè, ho fatto la stessa cosa. Di solito lo accendo la sera e se sono di buon umore, invece lo ho acceso questa mattina molto presto e prima di ogni cosa, volente o nolente, mentre attraverso la casa con la tazza di caffè in mano, l’occhio cade sull’albero, vede una cosa che ha già visto ma in un contesto diverso.

Il contesto ti cambia la prospettiva, il punto di vista, di riflesso cambia anche la percezione che hai di una determinata cosa. Funziona anche con le persone, in un determinato contesto le percepisci in un modo, fuori contesto in un altro. A volte meglio, a volte peggio.  L’albero acceso il ventiquattro mattina presto, per ora, mi fa stare meglio. Ora vedo cosa combina la focaccia.

Buon Natale!

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quante cose che non sai di me

presente quelle cose che ogni tanto ci salgono alla testa e sembra che siano accadute ieri?

A vote era proprio ieri.

Del mio istinto non ho mai dubitato, della mia intelligenza, invece, sì. Un paio di volte, forse tre… magari cinque che è quasi natale e l’abbondanza ci sta bene.

La prima volta che ho dubitato della mia intelligenza era molto, moltissimo, tempo fa. Io lo amavo, lo ascoltavo, gli parlavo, lo facevo ridere, lui faceva ridere me, ogni tanto mi raccontava delle sue delusioni amorose ma io avevo quattordici anni e lo amavo, non so se mi spiego, era il principe azzurro che girava in ciao, quello che piaceva a tutte e anche a me, quello a cui piacevano tutte (sì, anche io), quello che le mamme adoravano ma mio padre, se solo l’omicidio fosse stato legale… così lo ascoltavo e lo consolavo e poi passavo il tempo che non trascorrevo con lui a piangere perché lui piangeva per un’altra.

La seconda volta che ho dubitato della mia intelligenza ero in Francia. Il nome del posto non lo ricordo, c’era un maneggio, io ero lì in gita con la scuola e a tutti i costi volevo andare a cavalcare in questo maneggio. I proffe mi hanno portata al maneggio, l’istruttore parlava francese e in teoria io lo comprendevo, in teoria. Il francese che ti insegnano in un istituto per il turismo è un po’ diverso da quello vero, soprattutto se l’istruttore di equitazione è balbuziente. Però posso dire di aver baciato la terra francese.

La terza volta che ho dubitato della mia intelligenza è stato con l’avvento di candy crush. Non è possibile che tutti son capaci e io no.

La quarta volta che ho dubitato della mia intelligenza è stato quando ascoltavo e annuivo anche se l’istinto mi diceva che era una stronzata.

La quinta volta, cantavo a un karaoke – Elisa & Ligabue: Quante cose che non sai di me – un karaoke da professionisti, gente che ti paralizza la sala anche senza microfono e io. Al karaoke  e il dj che a mezza canzone ci ha detto: ok Liga lo fo io.

mi pare ieri che dubitavo della mia intelligenza e invece, forse, era oggi.

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La risposta alla domanda.

Non so quando sia iniziato questo ciclo del desiderio automatico. Forse era nel 2010. Il punto è che da enne anni a questa parte, tra settembre e dicembre, il mio unico desiderio è che l’anno in corso finisca, si porti via tutto il male degli ultimi tempi (il mio, quello di amici, anche il male per sentito dire) e via: ripartire.
Lo sto facendo anche ora, prego divinità a caso con il desiderio di svegliarmi domani e che sia febbraio, gennaio non è abbastanza.
Sto vivendo un periodo difficile, doloroso, molto buio. La luce alla fine del tunnel non si vede, io cammino cercando di non inciampare, se riesco cerco le pareti per aiutarmi, a volte mi ritrovo in ginocchio, altre mi pare che il pavimento sia solido e allora procedo in piedi e quasi sicura.
Ho sbagliato due o tre cose, quando sei nei guai a volte sbagli. Io ho allontanato chi mi vuole bene. Mi sono orsizzata. Ho quasi perso una grande occasione. E ho perso sei chili in due settimane. Lo dicevo che a volte si sbaglia.
È accaduto da poco ma è accaduto che mentre ero lì da sola nel tunnel buio, ho sentito una voce dolcissima. Era la mia. Mi diceva che se sono nata in una rigida notte di dicembre e sono sopravvissuta alla bronchite presa nel mio primo mese di vita, ce la potevo fare. Ero forte al tempo e lo sono ancora. Mi diceva che al tempo, la cosa più importante per me stessa, ero io. Che lo sono ancora e che devo ricordarlo. Mi diceva che le cose non capitano sempre per colpa di qualcuno, che non era sempre colpa mia e che la vita è variazione, movimento. Anche la terra gira, si barcolla, si cade. Ci si rialza.
L’ultima cosa che mi ha detto è di amarmi, di volermi bene, di coccolare quanto mi sono guadagnata con i miei sforzi, di lasciar perdere ciò che mi nuoce.
Ho pensato che la mia voce dolcissima potrebbe aver scritto un libro di Coelho.
Lei ha riso, io ho riso. Poi mi sono alzata e sto proseguendo piano. Quello che è sicuro è che nella stessa pozza non inciampo più. La conosco e so riconoscerla anche al buio.
E poi il titolo del post sembra non avere nulla a che fare con niente e invece…
Se sei un autore e hai fatto almeno un paio di presentazioni hai ben presente il momento in cui ti chiedono quanto c’è di tuo nei protagonisti e a te cadono le gonadi. Perché è una domanda che se hai voglia dai un respiro così ampio che poi cadranno le gonadi anche al resto dei presenti, se non hai voglia… La rispondi male per forza, tipo: boh, non ricordo. Intanto ti chiedi che ha risposto Stephen King quando gli han chiesto quanto ci fosse di lui nel pagliaccio di McDonald. Comunque. La risposta è che in questi giorni in me c’era la mia Emma, la Emma che le bastava una cosa che andasse male per riuscire a far marcire tutto il resto. Emma è andata. Per quella parte. Sono cresciuta, non cambiata (credo) cresciuta. Ora in me c’è un altro personaggio, non è mio ma sono contenta (questa cosa dell’assomigliare o agire come qualcuno mica funziona solo per chi ha un personaggio, anzi) io ora mi sento su Black Mamba, ci vorrà del tempo ma al tunnel gli farò un gran culo.

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Voglio vivere così.

Oggi mi ha chiamata una persona con cui interagisco per lavoro, contatti decisamente professionali quindi, però, come è ovvio, non è che quelli con cui interagisci per lavoro da anni non li conosci, conosci cose che hanno attinenza col lavoro, se hai un istinto di sopravvivenza  ascolto elevato sei anche in grado di capire come dire o non dire una cosa. Poi non sai di certo il piatto preferito delle persone con cui hai delle collaborazioni (anche se credo che tutte le persone con cui collaboro, grazie agli enne pranzi di lavoro, siano consapevoli della mia avversione per i capperi e le acciughe) ma esiste una sorta di conoscenza o di consapevolezza delle potenzialità e limiti umani e lavorativi (non sempre ma a volte coincidono).

Questa mattina ho ricevuto questa telefonata lavorativa in perfetto orario lavorativo, ne troppo presto ne troppo tardi, comunque in mattinata che è il codice di: sei nei miei pensieri. Siccome è gentile e un po’ mi conosce, mi chiede anche come vanno i libri, come vanno le mie cose extra ufficio. Sintetizzo gli ultimi nove mesi che in effetti era da un po’ che non si parlava di varie, mi risponde con entusiasmo ma mi ricorda che abbiamo tutti un limite e di stare attenta ai giorni in cui ci si sveglia più stanchi di quando si è andati a dormire.

E’ il tempismo perfetto con cui è uscita questa affermazione che mi ha colpita. Mi è capitato svariate volte, soprattutto nell’ultimo mese, di trovarmi in orari improbabili col telefono in mano. Attività, progetti, idee. Sono disponibile, posso farlo, posso aiutarti, certo, molto volentieri, scrivimi quando vuoi, finisco di mangiare e arrivo, nessun disturbo. Non so per quale assurdo motivo io mi senta in dovere di rispondere entro cinque minuti netti dalla ricezione, forse il lavoro mi ha abituata così e ora non riesco a farne a meno, si è radicata una mania tra le mie mille altre manie. Forse l’attitudine c’era già… Se telefono metto giù al quinto squillo libero (a esclusione di quando chiamo il Pippo (il Capitano) o mio fratello che magari sono in barca e non sentono) perché so che forse sto disturbando, perché io rispondo entro il secondo, il terzo se sto camminando, se non rispondo al terzo vuol dire che non risponderò, non posso o non ho sentito.

Non sono stanca, sono entusiasta, sono propositiva, a volte sono emotiva, guardo ad alcuni risultati e mi si aggroviglia la gola e devo deglutire per la gioia e quell’emozione bella o il ricordo che non mi toglierà mai nessuno.

Ho capito che mi piace vivere così, aggiungere carte al mazzo, rispondere alle mail  entro cinque minuti, rispondere al telefono entro i  cinque squilli… ho però anche capito che  stasera presto, almeno oggi, è il caso che io mi metta lunga, possibilmente nella totale immobilità del corpo e della mente e fortuna vuole che in mezzo alle carte del mazzo c’è anche Yoga (c’è anche una formazione sulle macchine a trazione posteriore, vi racconterò ma soprattutto Yoga).

 

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non sono scema, sono fatalista.

Quando un file di tre pagine (tre cartelle editoriali, actually) scritto con amore, passione, impegno ti si smichia in via definitiva a causa di un fatal error del computer, ci sono solo due reazioni. Sarebbero tre, la prima consta nel verificare se il file è recuperabile una volta che il computer torna in vita ma ipotizziamo che il file non sia stato recuperato (non è un’ipotesi, non l’ho recuperato e basta).

La prima reazione è far due parole con Dio. (Quando fa così che va tutto male non c’è Dia, c’è Dio).

La seconda reazione possibile è essere fataliste. Ho deciso per il fatalismo.

Quando faccio così, quando non mi arrabbio, mi sento proprio una persona matura, un essere superiore… a cosa mi serve arrabbiarmi per un file perduto?  è andato, fine, morto, se hai voglia lo rifai.  Mi sento più grande.

Non è vero che se ho voglia lo rifò… lo devo rifare. Posso arrabbiarmi perché lo devo rifare?

No. Non posso arrabbiarmi perché se alzo la mano per partecipare alla partita poi non mi tiro indietro, non fingo il mal di pancia.

Ieri ho scritto su facebook che chi sa fa, chi non sa parla. Sono d’accordo e ce l’avevo con me. Ho parlato così tanto da essermi annoiata da sola. Ho parlato di giorno, ho parlato nel sonno, ho parlato da sola mentre andavo al supermercato. Sono logorroica e di sentire la mia voce non ne posso davvero più. Peraltro, nella mia testa, anche i miei pensieri hanno voce, ne sento il rumore e i miei pensieri hanno l’accento di MaRgheRa come me (ma continuo a risultare meno marcata di passa a enel eneRgia), insomma ho parlato tanto e dibattuto tanto che mi son data fastidio. Dopo tutto quel parlare e il  lagnarmi ho deciso di scrivere, che continua a essere il mio miglior metodo di comunicazione da quando avevo sette anni. Ti sei innamorata del bambino  che hanno messo in banco con te in seconda elementare e non puoi dirlo a nessuno perché hai paura che ti prendano in giro? scrivilo sul diario segreto. Ti sei dilungata qualche canzone di troppo con il ragazzo che hai conosciuto di domenica pomeriggio all’Area city a sedici anni? scrivilo sul diario segreto! E’ morta tua nonna e quattro mesi dopo è morto anche tuo nonno? ti fa così male che non riesci a parlarne? scrivilo sul diario segreto. Hai delle idee? decine di idee che sai benissimo che non riuscirai mai a trasmettere a voce perché non è il tuo mezzo di comunicazione più funzionale? scrivilo in tre pagine di word! le perderai comunque ma almeno ti sarai liberata la testa da un paio di chiodi.

Allora ho deciso di essere fatalista, di non arrabbiarmi, che comunque tutto quello che io riesco a mettere giù nero su bianco ha un potere terapeutico potentissimo per me e va bene così, son tre pagine, ho in corso salvataggi di duecento, potevano sminchiarsi quelli (se perdo la chiavetta però due parole a Dio le dico). Soprattutto, nel caso non si sia notato, la mia cartellina azzurra delle idee, quando ho smesso di parlare e ho iniziato a fare, si è magicamente aperta.

 

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ho dormito

Il protagonista del romanzo che ho finito di leggere ieri è un cocainomane che dorme cinquanta minuti ogni tanto.  Si vede che mi sono sentita di creare equilibrio tra il mio universo e il suo perché ho dormito quasi dodici ore. E’ stata una settimana infernale, ancora non è finita.  Il blackberry continua a suonare, la lavatrice non funziona, credo si sia sminchiata la scheda programmi. Pensavo uscisse il sole, di andare sul Sirmione o qualcosa così ma desisto. Mi arrendo. Hanno vinto loro.

Ho ponderato ogni passo della scorsa settimana e di quella prima ancora, avevo un piano, una bella idea e soprattutto si trattava di fare del bene. Mi sentivo vincitrice perché sono romantica e i buoni vincono sempre ma non ha funzionato e ogni volta che mi sono esposta mi si è  ripresentato lo stesso spettacolo,  gente che si volta dall’altra parte,  persone che fingono di non vedermi e l’indifferenza, il nulla de La storia infinita, sono in grado di portare via tutti i miei vecchi propositi e quelli a venire. Allora mi sono arresa, sollevato le braccia e abbassato la testa e sono andata a leggere davanti alla chiesa sconsacrata e ho ascoltato buon cantautorato italiano e quando è arrivata la sera di ieri ho bevuto del vino bianco, chardonnay. Sono andata a letto così presto che mi pareva di essere in castigo.  Non pensavo più a niente, ho chiuso la cartellina azzurra, quella che contiene i grandi progetti pro bono. Ci penserò ancora un paio di giorni perché sono fatta così, ci penserò col malessere, quel senso di perdita di quando metti via qualcosa di bello perché non ti è concesso di occupartene e quando hai avuto l’occasione l’hai sprecata. Contestualmente mi darò qualche colpa, avrei potuto essere più aggressiva, boia chi molla e altri modi di dire. A volte le buone idee e le idee buone non bastano, serve un piglio commerciale per proporle, io quel piglio commerciale lo ho ma è sfruttato su altre corsie… tonno, salmone di balik, vino, prosciutti spagnoleggianti… formaggi belanti.

Così ho dormito, quasi dodici ore, avrei voluto fosse il riposo del guerriero e invece è solo l’effetto resa.

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delle grandi navi e della coesistenza.

Oggi ero in bacino, davanti alla punta della dogana, città di Venezia. Dov’ero io è comodamente raggiungibile a nuoto o con mezzi acquei,  non so nuotare, hanno provato a insegnarmi quando ero piccola; il metodo didattico di non so che parente, quello di scagliare i bambini dove non toccano, credo che tutto sommato non sia grandioso.

Qualche domenica fa (forse un paio) hanno manifestato i – no grandi navi – oggi era il turno dei sì. Quando ero ragazzina non ho perseguito con la giusta energia il mio obiettivo di andare a fare la ballerina dei video musicali per mestiere, così, a un certo punto della mia vita (undici anni fa) mi sono ritrovata a fare la portuale. Portuale è tutto quello che ha a che vedere con il porto, per motivi che ben so, a volte, il termine viene usato impropriamente quale dispregiativo. Chiunque presti un servizio al porto, o a qualcosa che ha a che vedere con il porto, è un portuale. Alla prima chiamata del movimento pro navi, ho stretto un po’ i denti, pareva una fregatura e pareva una cosa che mi coinvolgeva troppo da vicino per appoggiarla. Sono fatta così, non riesco a tutelare i miei interessi a discapito di quelli di altri, mi pareva troppo per me, una cosa che mi permettesse di continuare a fare il mio lavoro con tranquillità. Poi sono usciti i servizi in tv, gli articoli, di una fazione e dell’altra. Fotomontaggi con navi che sembrano inghiottite dal Canal Grande (solo un coglione  pirla può cascarci e credere siano vere). Sono stati sdoganati e resi pubblici moltissimi argomenti, sia per la fazione dei no, sia per quella dei pro. Non tirerò fuori fattori ambientali e fattori di sicurezza perché non è decisamente il mio campo, non saprei spiegare con la stessa dignità dei tecnici e i dati sono rintracciabili da tutti. Io però il porto l’ho visto all’opera, so cosa succede quando entra una grande nave, ed è esattamente tutto quello che accade quando ne entra una piccola, entrano in ballo delle squadre, ognuna indipendente ma tutte cooperanti per garantire il successo della manovra. Succede che per chi vede da fuori lo spettacolo può essere soggettivamente orribile o bellissimo, succede che a bordo della nave, fuori della e intorno a ella ci sono delle persone e con le persone non si scherza, se poi si tratta di un ospite, per noi, è cosa ancora più sacra. Il punto di rottura avviene per la questione del preservare la città, è un dato di fatto che se la città scomparisse io non potrei più favoleggiare di grandi navi. E’ il mio punto di disagio perché a osservarla con un lecito distacco ti accorgi che Venezia, in particolare negli ultimi anni, è diventata la città dei no. Sono ovviamente favorevole a preservare la città e nel suo equilibrio, quello che non mi piace è quando viene di meno la coesistenza, tenendo sempre bene a mente che a Venezia le navi sono sempre arrivate, così come il turismo. Ci sono molte teste, molto brillanti, che potrebbero presentare dei progetti alla portata della richiesta, si chiede di non modificare nulla. Di mantenere una piccola stasi tra quello che c’è ora e quello che potrà essere in futuro. Si chiede di creare un piano per la città che permetta al porto di rimanere vivo ma sembra essere un’idea assurda. Io non lo so come è andata quando hanno costruito la stazione di Santa Lucia ma posso immaginare i detrattori che -il treno? A Venezia?- eh sì. Ci hanno addirittura installato un tram, c’è il people mover, alcuni ponti ma purtroppo non tutti, permettono il passaggio delle sedie a rotelle. Mi irrita l’assenza di volontà di coesistenza, ho la sensazione che la città, sempre di più, verrà trasformata in un museo, qualcosa di distante, di lontano, di sempre meno accessibile e al contempo sappiamo tutti che il desiderio di chi vede Venezia è viverla, sentirne l’odore, farsi assecondare l’umore dalla città, fosse solo per qualche ora.

Parlo sempre per metafore sbagliate, poco pertinenti, hanno ucciso un’orsa qualche tempo fa (non troppo) perché forse poteva fare del male a qualcuno, perché forse uno che raccoglieva funghi ha fatto amicizia con i figli orsetti e lei si è preoccupata… allora è scattato il meccanismo. Basta, chiudiamo tutto, chiudiamo l’orso, chiudiamo il porto, chiudiamo l’accesso alle navi, chiudiamo le orecchie e non pensiamoci più, non cerchiamo altre soluzioni. Smettere di cercare e chiudere le porte secondo me non è mai la cosa giusta.

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almost

 

A Venezia è iniziato il vento, accadeva una settimana fa, ho un chiaro ricordo di me che infilo il giubbetto un po’ grosso e il collega/compagno di banco che mi chiede se vado in montagna e io che protesto: “hai poco da ridere,  fuori c’è un vento che porta via!” Una mezzoretta più tardi una mezza Venezia postava foto di grandine a Piazza San Marco e lì intorno. Comunque il vento si sta portando via l’alta stagione lavorativa. Io cerco di stare ancorata a terra e di respirare con il naso per compensare.

Tutte le volte che sono invisibile in questi luoghi (o altri) è perché sto facendo qualcos’altro, mi piacerebbe venire qui un giorno e dire: sono stata assente perché ero a grattarmi la pancia in spiaggia, invece non capita mai. Se non sono qui sto lavorando a qualcosa o mi è venuto in mente qualcosa a cui lavorare.

Ho un nuovo incarico di direttore artistico, per pescepirata.it (prego osservare logo di blutto alla destra del monitor), abbiamo lavorato alla creazione di un talent show dedicato alla scrittura sul forum. Siamo belli, siamo bravi, siamo tanti e soprattutto siamo entusiasti.

Ho scritto un articolo, per una rivista edita da un centro ricerche, il nome del direttore editoriale è così impegnativo che non lo dico però se vado alla presentazione giuro che prima prendo appuntamento dalla parrucchiera.

Ho quasi finito il nuovo romanzo, mi manca pochissimo ma è quel pochissimo del fastidio, quel pochissimo di quando stai per entrare in supermercato e non ti ricordi se hai chiuso l’auto (o se hai il portafogli, la sporta ecologica invece per forza di cose è rimasta a casa, neppure controllo) e devi cercare di resistere all’impulso di tornare indietro. Sto cercando di non tornare indietro, di andare avanti spedita e poi rivedere e revisionare con calma.

Ho quasi finito un romanzo breve.

Ho letto molto, poco contemporaneo, anzi… da un mese a questa parte ho letto un unico autore contemporaneo (moltiplicato per più romanzi) e ho ripreso dei testi che non avevo mai letto, tipo Irving che però ha solo viaggiato molto in pulmetto con me, il povero Irving è stato abbandonato una decina di volte in favore di altri… però poi lo riprendo.

La cosa che mi è venuta meglio è cercare di essere buona. Quando ero più giovane cercavo di essere brava, ora di essere brava non mi interessa moltissimo, brava per chi? brava a far cosa? faccio del mio meglio e metto un cento per cento di kerika in ogni mia azione, a volte è abbastanza a volte no, a volte faccio bene, a volte la mia vita è come la minestra che mi sono preparata ieri sera, puoi metterci tutta te stessa ma se non è venuta buonissima per questa volta può andar bene anche così. Io faccio del mio meglio. Sto cercando di essere buona e mi sta venendo discretamente bene, mi metto nei panni degli altri, parlo in favore dei più deboli (se non rischio il cazzotto in faccia, lo ammetto), cerco di non arrabbiarmi con chi viola la mia sensibilità, i miei spazi, i miei tempi. Ho parlato molto con Dia (sì, Dia). Da quando ho intrapreso questa strada di voler provare a essere buona a tutti i costi mi sono resa conto che serve qualcuno con cui parlarne e Dia è perfetta. Silenziosa e perfetta. Provare a essere buoni, per me, è molto più complicato che alzarmi e mandare tutti affanculo, credo dipenda dal fatto che un po’ sono capricorno e poi sono anche cavallo, però e nonostante lo sforzo,  la sensazione che rimane è meravigliosa.

 

 

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Macchinette reloaded

 

 

Ieri c’era un altro raduno di macchinette, io avrei fatto del mio meglio per dimenticarmene ma il Capitano, nei quindici giorni antecedenti al raduno di macchinette di ieri, me lo ha ricordato ogni giorno. C’è stato addirittura un momento di scorsi giorni in cui è venuto a dirmi il menu della cena del raduno di macchinette. Giusto per essere chiari credo che non sarà così interessato a un menu neppure per il giorno delle sue nozze.

Una cosa interessante di questo raduno di macchinette è stato il fattore pioggia. In principio non capivo, mi è stato detto che molti hanno tirato il bidone per il mal tempo, così ho sollevato gli occhi al cielo, ho verificato che c’erano ste due gocce, ho immaginato che quelli che non venivano arrivassero da qualche regione in cui il mal tempo stava distruggendo campi, coltivazioni, allevamenti, tetti… non era per quello. Il possessore medio di macchinetta non vuole che la macchinetta si bagni di pioggia. Pare che la pioggia per il possessore di macchinetta faccia lo stesso effetto che la luce del sole fa a Dracula.

Quando si è trattato di salire sulla macchinetta, il Capitano mi ha intimato di pulirmi bene le scarpe,  entrata nel’abitacolo avevo paura di sporcargli i sedili con i miei fottuti pantaloni bianchi lavati con il detersivo da lavatrice e non con il preziosissimo sapone da macchinetta che ci deliziava del suo odore.  Non so per quanto tempo abbia pulito ma sia gli interni sia gli esterni, erano lindi quanto una sala operatoria, resta che quando mi sono ricordata che il Capitano è lo stesso uomo che mi schizza lo specchio del bagno, con dentifricio e gel e senza pentimento, l’ho mandato a cagare dall’interno e morta la.

Quando i possessori di macchinette vanno in giro una macchinetta davanti all’altra lo stereo deve essere al minimo. Sennò non puoi sentire il rumore delle macchinette in fila e se non senti rumore che macchinette è?

Quando i possessori di macchinette devono salire e scendere da rampe o da dossi (in casi estremi a volte basta meno) parte una mezza bestemmia.

Le macchinette sembra che abbiano tutte il culo grosso, perché sono più basse da terra rispetto alle comuni macchine, se sei donna lo sai che col baricentro più basso il culo sembra più grosso.

C’è questo meccanico di macchinette che il nome non lo dico ma anche se non l’ho mai visto è come se lo conoscessi da vent’anni da quanto ho sentito parlare di lui. Secondo me quando ci sono gli eventi con le macchinette gli fischiano le orecchie.

Al raduno di macchinette di ieri le macchinette erano tutte bellissime… (e come già detto pulitissime), la mia preferita di ieri era una macchinotta, bianca, gigante, con la scritta Boss.

A tutti quelli con le macchinette piace fare i sottopassaggi perché si sente meglio la macchinetta che scoppietta.

Sulla strada del ritorno, sulla tangenziale, eravamo noi e un’altra macchinetta. Io mi ero già messa nella postura da macchinetta e tangenziale, che vuol dire -occhio che ti si straccia il cervicale- perché nella tangenziale, assolutamente entro i limiti di velocità stabiliti per legge, due giri in più al motore glieli fai fare. La cosa interessante è che c’eravamo noi e due nostri amici davanti, noi e gli amici a dar due giri al motore, poi la macchina degli amici che le si attacca lo stop posteriore, la scena nitidissima di due macchine normali bianche che si sorpassano a destra nelle altre corsie, il pensiero chiaro – sti due stronzi adesso si ammazzano per giocare  sulla tange di mestre.

Ora che le cazzate le ho dette tutte, al di la del fatto che non capisco e non capirò mai nulla di macchine e macchinette, ma va bene così, sopravvivo. Una delle cose che mi piacciono delle persone che ho conosciuto è la consapevolezza. Non so se sia perché le loro cose le vanno a fare in pista ma da quello che ho visto ho ben ragione di avere più paura di quelli con le macchine normali.

Nell’immagine la tipica condizione climatica avversa per il possessore di macchinetta.

condizioni climatiche avversa

 

 

 

 

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Ho trascorso una grossa parte della mia infanzia in bagno, seduta sulla tazza, con le mutande alle caviglie a leggere i Topolino o i Geppo che i miei lasciavano sullo sgabellino bianco dalle zampe così arrugginite che se le toccavi ti restavano le dita arancioni (e anche il tetano). La mamma e la nonna, intanto,  mi facevano ingoiare un’enorme dose giornaliera di prugne e di cicoria perché avevano frainteso il motivo delle mie lunghe sedute.

Non mi ricordo se si trattasse della prima comunione o di un compleanno, quello che mi ricordo molto bene è quanto io fossi felice di ricevere dalle mani della Zia il mio primo libro di favole. Era Le fiabe di Andersen, un libro che al tempo era più grande di me, pesava così tanto che potevo leggerlo solo se me lo appoggiavo alle ginocchia o sopra a un tavolo. Non vedevo l’ora di leggere La sirenetta e il brutto anatroccolo, ché le sapevo già, solo che leggendo l’indice rimasi colpita da una parola che non conoscevo – Acciarino – così iniziai da quella per innamorarmi, poi, de I vestiti nuovi dell’imperatore.

A casa della nonna leggevo i quindici, dovevo stare attenta a non rovinarli sennò erano guai. Devo essere stata parecchio attenta perché se mi concentro riesco ancora a sentire l’odore di quei libri.

In un giorno bellissimo i miei genitori (anche se al tempo mi è stato detto che era stato  Babbo Natale) mi hanno regalato Piccole Donne. Lo ho ancora. In seguito ho letto anche le Piccole Donne crescono e i ragazzi di Jo ma non era la stessa cosa.

Non ricordo esattamente come è andata, credo che a scuola ci abbiano intimato di leggere Le tigri di Mompracem, che so per certo essere la mia prima storia di Pirati. So (sempre per certo) che in quel periodo ho ipotizzato di avere (in futuro) un figlio maschio e di chiamarlo Sinbad.

Il mio periodo horror è iniziato nell’estate dei miei tredici anni, corrispondeva perfettamente con la mia evoluzione in signorina. In principio è stato Poe con Gordon Pym poi è arrivato King, intanto che  la nonna mi faceva guardare i Dario Argento. Credo che Twin Peaks sia uscito l’anno dopo o qualcosa così; sul TV Sorrisi e Canzoni mettevano il diario di Laura Palmer, le pagine erano incollate per inibirne la lettura ai più piccoli, non ero sicura di essere piccola ma una vocina nella mia testa mi ha detto di rubarlo, ritagliare le pagine e leggerlo di nascosto. Per lo stesso motivo anche Noi i ragazzi dello zoo di Berlino è stato letto di nascosto. Come potete notare dal titolo di questo blog ha anche lasciato dei segni del suo passaggio.

Sherlock Holmes  mi piaceva ma non quanto Agatha Christie. Iniziavo ad avere un’eta in cui se i miei amici del parchetto mi beccavano a leggere mi creavano problemi. Il problema non era la presa in giro… era che mi afferravano il libro che tenevo in mano, lo sgualcivano, lo calpestavano… quando La ragazza di Bube è finito nell’immondizia ho capito che era meglio non farmi beccare con in mano libri leggeri, in paperback, vuoi mettere la soddisfazione di dare in testa a un molestatore un rilegato?

Il ricordo dell’anno che ho letto Il silenzio degli innocenti mi lascia sempre la sensazione di avere letto solo quello.

Siddharta mi è piaciuto così tanto che ho preferito Narciso e Boccadoro. Ero piccola per leggere Madame Bovary, non l’ho compreso del tutto e me ne sono resa conto così ho potuto rimediare anni dopo. Una vita e Bel Ami me li sono divorati insieme a L’amante e Lolita. Mi sono accostata ai Russi, non ci sono riuscita e sono scappata via in favore di Dumas, il suo conte e i suoi moschettieri. Non ero abbastanza per le cime tempestose, l’ho messo via e l’ho ripreso anni dopo.  Non ero abbastanza per Levi, a volte ho la sensazione che non sarò mai abbastanza per lui, mi arriva, arriva forte ma io faccio resistenza. Mary Shelley mi ha spezzato il cuore, l’ho ricucito con la Austen. Quando ho cercato un’altra storia con una grande donna ho incontrato Moll Flanders.

E’ arrivato quindi  il momento dei due Italo della mia vita, subito seguiti da Dacia Maraini. Dopo Dacia ho letto qualche Sveva Casati. Ho iniziato a lavorare e a mantenermi i libri, è arrivato anche la possibilità di prendere decisioni meno ponderate sugli acquisti e i primi abbandoni letterari.

Credo (ma sono incerta) che Stoker si collochi qui, non credo di sbagliare se dico di averlo acquistato insieme alla mia seconda copia di Il rosso e il nero, comprato due volte perché non sono così riuscita a leggerlo alla prima che comunque avevo rimosso. Poi c’è stato un ritorno di fiamma breve ma inteso con Il miglio verde di King.

Il mio primo Douglas Adams.

Il mio primo Roth, letto contestualmente al mio unico Richler. La scoperta di Wallace. La scoperta di Fante. La scoperta di Fruttero & Lucentini. Per il mio primo Scerbanenco sono dovuti passare anni in cui tra molti altri spiccavano per miglior compagnia Palahniuk,  Ann-Marie Macdonald e Cormac McCarthy.

Ho letto tutti gli Harry Potter e tutti i Rowling e i Galbraith disponibili. Anzi, muoviti!

Ho un Anais Nin ma non sono pronta, l’ho iniziato, me lo sono tirato dietro in sogni oscuri e forse ci tornerò più avanti.

Ho letto Liala, mi pareva una cosa da fare, non tutta la produzione, ne ho letti tre li ho trovati illuminanti. Sulla scia delle cose illuminanti ho letto Erica Jong, ricordandomi che è stato scritto più di trent’anni fa. Quando è arrivata Magda Szabo con La porta ho pensato che sarebbe stato difficile trovare qualcosa da leggere in futuro, c’è da dire che questo è un pensiero che avevo già formulato, non troppo spesso ma è già accaduto.

Ho un pacchetto di libri nuovi che vorrei leggere sulla libreria del corridoio, però ieri c’è stato un bel momento della mia giornata in cui si parlava di un certo libro che ho già letto, come dicevo non riesco neanche a collocarlo sulla mia linea temporale. Il Capitano, che mi conosce, dice che di sicuro l’ho preso prima di vedere il film del film di Coppola, che io faccio così, se so che esce un film da un libro mi fiondo a leggerlo. Io non mi ricordo di questo particolare, ricordo il divano su cui l’ho letto, ricordo il freddo che provavo dentro e che sentivo sulla pelle. Ricordo l’ansia, la preoccupazione, il dolore, ricordo anche un’ironia, no, non era ironia, era ingenuità che faceva piegare le labbra. Non ricordo i passaggi, non c’è un solo passaggio che io possa citare, una frase… nulla. Mi ricordo questa storia d’amore, forse tra le più belle storie di amore mai lette. Soprattutto mi ricordo che mi ha portata via, altrove e in altri tempi.

Ora vado che c’è una carrozza trainata da quattro cavalli neri che mi aspetta.

Stoker

 

 

 

 

 

 

 

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Una cosa divertente che non farò mai più.

Ieri sera sono stata al mio primo e credo anche ultimo, raduno di macchinette. Non sono certa che raduno di macchinette sia il termine esatto, penso sia stato chiamato – autoraduno.

L’evento era piuttosto esclusivo, da quanto ho capito, c’è un determinato numero di cavalli che  deve essere ben presente sotto al cofano se no puoi fare anche a meno di presentarti. Poi ho anche capito che il raduno in origine era per i possessori di Mustang che è sia un tipo di cavallo sia un tipo di automobile piena di cavalli.

Da quello che ho visto poi sono arrivati tanti tipi di macchine, non solo le mustang ma anche altre. C’erano le macchine bianche in bella fila, c’erano due macchine verdi e identiche a parte che una era più bassa e una era più alta (e, ripeto quello che ho sentito, è perché una aveva l’assetto e l’altra no) e queste due verdi erano in mezzo a una di un bel celeste metal e a un’altra di un bell’arancio quasi salmonato. Poi c’era anche una bella striscia di queste mustang che non vorrei sbagliare ma mi parevano tutte nere, le mustang le riconosci subito perché sul davanti c’è un cavallo.

Quelli che arrivavano con le macchinette normali e per normali voglio dire: non appariscenti, non scoppiettanti, non lunghe, non alte, non basse, normali insomma… quelli lì andavano a parcheggiare da un’altra parte.

Quando sono arrivati i carabinieri mi sono sentita molto fast & furios, a parte che eravamo dalle parti di Gaggio e non a Los Angeles. Poi comunque i carabinieri non hanno fatto niente, continuavano a perlustrare la zona ma non si sono neanche fermati, anche perché non c’era un gran niente da fermare, quando siamo entrati tutti al bar la bibita più gettonata era il tè alla pesca, la seconda bibita più gettonata era la coca cola, credo di essere stata l’unica a prendere un mojito.

Una cosa che mi è piaciuta e che farò ancora, è che mi sono messa a parlare con due ragazze di gatti.

Una cosa di cui mi sono accorta è che le ragazze che hanno parlato con me di gatti parlano benissimo quella strana lingua che è il “macchinettese”, hanno la perfetta padronanza del gergo – tubi, scarichi, tagli, gomme duemila, prese aria- io no.

Una cosa strana è che io venivo presentata come “la sorella di Andrea Evo” (che poi evo in questo contesto non è olio extravergine di oliva, è una macchinetta che aveva mio fratello). Allora niente, pensavo a questa cosa qui che era davvero da tantissimo tempo, facciamo anche da mai, che non mi capitava di essere presentata come la sorella di qualcuno invece che come individuo. Allora volevo dire a tutti quelli a cui sono stata presentata ieri sera come sorella di Andrea Evo: Ciao, mi chiamo Erika, ho preso la patente a ventitré anni perché non mi è mai interessato di guidare ma a un certo punto mi pareva carino avere una macchinetta con cui andare a fare le spese. Le volte che ho guidato comunque non è neanche andata benissimo. La patente mi è scaduta ad aprile e vi prometto che andrò a rinnovarla. Prima o poi. Ho capito un terzo di quello che avete detto ma è stato divertentissimo lo stesso.

 

(nell’immagine ci sono io, qualche mese fa, con una macchina bianca (Evo) e una macchina verde (Gina).

ciò

 

 

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vorrei una camionetta.

I periodi diversamente liberi mi piacciono. Sono i miei periodi preferiti. E’ dal 2010 che vivo un periodo diversamente libero, sono quattro anni che corro e rincorro. In estate è peggio, c’è la mia alta stagione lavorativa e io è sempre dal 2010 che non riesco a dare il postponi a molte cose. Sono in forma, correre tutti i giorni della mia vita mi viene bene e dopo una grande doccia in genere sono perfettamente rigenerata. Tuttavia… ci sono dei giorni in cui sogno a occhi aperti. Sogno di andare in Vietnam, come dicevo nel 2009, sogno giornate in cui indosso solo i voglio e non i devo. Sogno il mio tour dell’Italia, in macchina, da costa a costa facendo il giro verticale, il ritorno lo farei con la camionetta perché ho in mente di portarmi a Venezia specialità da ogni luogo, quindi sogno di prendere la patente per la camionetta. Sogno di fare una giornata ai Pioppi. Sogno  di avere tempo per tutto e poi mi regalo i pretesti, i premi di consolazione. Sono diventata bravissima a dare il peso del mancato svolgimento dei miei vorrei a situazioni che coi miei vorrei non hanno  niente a che fare. Se devo dirla proprio tutta ho la tendenza a occuparmi  proprio per evitare i miei vorrei. 

Di notte, per una sorta di coerenza, ho incubi a occhi serrati sui miei devo.

 

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Attitude

La stagione lavorativa, l’alta, è iniziata. Se mi sentite protestare perché non trovo uova di fenice e latte di mammuth, ricordatevi di non contraddirmi, dovete darmi ragione, sempre. Infilarsi la -yes I can- attitude poi non è male come sembra, anzi.
Ho passato tutta l’adolescemità a far la guerra ai miei genitori, qualsiasi loro consiglio, oltre a essere del tutto non richiesto e ricordarmi quanto non sapessero (a mio modesto parere) stare al mondo, faceva si che io facessi l’esatto opposto. Non avevo la yes i can, è evidente, è saltata fuori col tempo. Allora ho passato tutta l’adolescemità a fare le guerre e a mettere in discussione qualsiasi cosa. Qualsiasi.
c’è della carne in questo brodo?
no, brodo vegetale
io dico che c’è la carne
non c’è carne, vai a vedere la spazzatura e troverai i residui di carota cipolla e sedano
secondo me hai messo anche carne
ti dico di no, ma in caso che problema c’è?
sono vegetariana
da quando? Due minuti fa hai mangiato prosciutto…
infatti sono vegetariana da un minuto

Quanto ero carina? La mamma infatti mi faceva sempre un gran complimento, mi diceva: ma io ti auguro di avere una figlia come te! Ma davvero sai, ti meriti una figlia come te. Mi diceva così e tante altre dolcezze, tipo: come che te go fatto te desfo (come ti ho fatta ti distruggo). Poi mi è venuta questa Yes I can, una Yes i can della prima ora. Ho iniziato a lasciare segni di pace al mio passaggio, tipo che ordinavo la camera prima che chiamassero la protezione civile, alla domenica mi offrivo volontaria per pulire il bagno, portavo fuori il cane prima che affogasse dall’interno per pipi trattenuta… Robine che nel bilancio della famiglia erano importanti. Insomma son cresciuta e mi sono appiccicata addosso questa roba di dire sempre di sì.
Mi è venuto in mente perché sono in alta stagione, certo, ma anche perché sto perpetuando questo stile di vita. Ieri mi sono quasi ammazzata sulle scale perché ero di corsa e dovevo andare a prendere del pesto, e di corsa. Perché se poi non mantieni quel sì diventa pesante. Molto più pesante di un no di impatto.

Poi ci sono i giri karmici e gli accadimenti strani, mentre scrivevo questo post, in un sabato mattina ore dieci, mi ha suonato Tatiana, diceva che ha un incontro importante di cui parlarmi. Tatiana mi suona ogni sabato mattina per questo invito importante, immagino per lei sia davvero importante, o che le piaccia essere insultata dalla gente. Io Tatiana non la insulto, però qualche mio vicino sì, i Russi del terzo per esempio. Io mantengo la mia yes i can, però a un livello latente. Oggi le ho detto di non suonarmi più, poi ho aggiunto -Tatiana, te lo avevo detto anche le scorse settimane di non suonare più- lei ha risposto con il solito -come desidera- io allora, in pieno spirito yes i can, le ho detto -Tatiana, non dirmi come desidero e poi vieni a suonarmi anche sabato prossimo, prova a fare veramente come desidero- allora lei ha detto la cosa più spaventevole per una che il sabato mattina vuole non essere disturbata: io suonerò sempre perché l’invito é importante-
Io le ho detto che se suona un’altra volta la denuncio per stalking.
Lei credo abbia capito.
Mi suonerà lo stesso anche sabato prossimo perché ha la geova attitude.

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…io il tuo responsabile editoriale lo conosco, ricordami un po’ il suo nome.

La scorsa settimana ha segnato la fine di una serie di date di presentazioni in cui ho parlato di Carlotta, allora volevo dire un paio di cose. A me piace parlare di Carlotta, è un po’ come quando ti metti a parlare del tuo gatto, ci parleresti sopra ore, racconti alle amiche di quella volta che ha preso il vizio di svegliarti alle cinque di mattina (o alle tre), di quella volta che ti si è addormentato sul petto e il dolore se ne è andato in favore della tenerezza (dolore perché il mio gatto maschio pesa sette chili e mezzo, mettetevelo a dormire sul petto e poi mi dite)… insomma di Carlotta parlerei sempre, come del gatto.

Così quando ti dicono di andare a presentare la Carlotta tu vai, non importa dove, ti metti in viaggio e vai. Poi però alle presentazioni non puoi veramente parlare di Carlotta come ne avresti parlato a una tua amica. Peraltro io sono timida, parlare in pubblico non è la cosa che mi viene meglio. Per amore di chi mi sta intorno ho finto, in questi mesi, di andare a presentare leggera. La verità è che fare le presentazioni è un lavoro, impegno dell’editore, impegno della libreria, impegno del relatore, impegno dell’autore. C’è  poca improvvisazione e molta organizzazione. I presenti si impegnano a loro volta e sono davvero gli unici in grado di cambiare il destino di una presentazione.

A Mestre ero con Annalisa Bruni, una brava autrice, c’erano solo i miei amici. Solo i miei amici erano un’ottantina di persone. Era la prima, la più emozionante di tutte.

A Treviso mi ha presentata un mio caro amico, Massimiliano Tosarelli – portatore sano di cultura, è stata quella in cui ho riso di più in assoluto.

Ad Ancona ero con Beniamino Cavalli, che ora è anche un mio amico, che oltre a essere un autore è anche un lettore forte e mi è piaciuto davvero tanto il nostro dibattito.

A Verona ero con la bravissima Beatrice dell’Angolo dei libri. Eravamo in stazione e mi è venuto parecchio da ridere quando sono arrivati due giapponesi che si sono seduti, si sono tolti le scarpe e hanno iniziato a parlare per conto loro.

A Padova c’era Simone Marzini, un altro amico, un altro autore. Per fortuna che c’era. A Padova la presentazione è stata anomala.

A Mirano c’era un’altra fila di amici, tutti quelli che non sono potuti venire a Mestre. Ero con Gabriele Pipia, è stato divertente e ho adorato gli interventi del libraio, Alessandro.

A Parma ho lasciato un pezzo di cuore. Ci ho già scritto un post allora non mi dilungo, ero con Sara Bonamini e con tante (davvero tante) splendide donne.

Sono sette, se mi guardo intorno mi posso convincere che siano poche. E’ che le vivo con la timidezza, la concentrazione, la voce che trema a ogni apertura di presentazione, allora mi sembrano tante.

E’ un primo giro, a settembre ne inizierò un altro, per ora mi tengo a cuoretto tutto. I bambini che si stanno approcciando alla lettura, le donne fantastiche, gli amici che ti chiedono di cantare un pezzo di canzone di Freddie Mercury, l’amica che arriva di corsa e senza fiato, l’amica che arriva anche se il cavallo ha le coliche; chi viene solo per chiederti il numero di cellulare della tua editor, chi ti dice “guarda che io il tuo responsabile editoriale lo conosco, ricordami un po’ come si chiama”,  chi arriva solo per dirti che “brava, hai scritto in prosa, la poesia però è un’altra cosa, scrivimi duecento pagine di poesie e poi ne parliamo”, chi racconta il finale del libro (già), chi si è innamorato di Felix, chi odia Felix, tutti quelli che “Carlotta nelle prime pagine mi era antipatica (o superficiale, o supponente) ora però le voglio bene”, chi rideva ogni volta che arrivava Fabrizio, chi sfrutterà l’idea dei natalini, chi ha ancora l’albero di natale in terrazzo da due anni, chi mi ha detto di essere pigrotto come Carlotta, chi mi ha detto che i pigrotti come Carlotta li prenderebbe a schiaffi ma non può perché sono: sua moglie/suo marito/sua sorella/la sua migliore amica, chi “lo ho letto in ebook ma ora prendo il cartaceo”, chi “per favore taglia che ho ospiti a cena e devo finire di preparare”.

Tutti a cuoretto.

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La mia prima volta a Parma.

Non ero mai stata a Parma, neppure da piccola. Ci sono dei luoghi in cui i miei mi hanno portata da bambina, persiste un ricordo pallido anche se sono posti che non vedo da decenni. Parma non è uno di questi.
Ho detestato l’autostrada, il viaggio è stato brutto, mi sentivo in ritardo (lo ero), c’erano troppi camion, troppo trasporto di animali vivi. Non vedevo l’ora di vedere Francesca, la mia amica Francesca.
Abbiamo cercato la statua di Garibaldi che era il nostro punto di ritrovo, Francesca dice che a Parma si usa di trovarsi li così mentre cercavo di non perdermi e di non farmi investire da una bicicletta mi sentivo comunque più di Parma che di Venezia. Avere il punto di ritrovo giusto ti fa la giornata.
Abbiamo trovato Francesca sotto al Garibaldi. Bella e luminosa, allora l’ho abbracciata perché lei è una di quelle amiche che anche se prima di Parma non le avevi mai viste ti rendi conto che è come se le avessi viste sempre. Abbiamo attraversato un viale e io ero spaventata dal passaggio delle auto, lei però mi ha rassicurata “ho in mano la bicicletta”.
Abbiamo pranzato insieme. Eravamo io, Francesca e il Capitano. Volevamo mangiare cose di Parma che a me piace fare così, non mi sembra carino andare a Parma e ordinare le sarde in saeor… E così è stato.
Abbiamo chiacchierato di così tante cose che un po’ sono rimasti argomenti aperti e come nei migliori racconti tra amici, abbiamo perso la cognizione del tempo.
Francesca ci ha fatto vedere i suoi luoghi e la libreria di Rossella, quando ho visto la libreria mi sono ricordata che ero li per presentare la Carlotta e non per fare indigestione di parmigiano 30 mesi, allora ho provato a concentrarmi.
È stata una presentazione bellissima. Le persone sono arrivate pian piano, venivano tutte a salutarmi, chi mi diceva che aveva già letto, chi mi salutava e basta, però venivano tutte a portarmi un sorriso. Ero con Sara, la relatrice si chiama Sara, era alla mia destra e però Francesca era in piedi alla mia sinistra. Mi son sentita coccolata. Sara aveva preparato una piccola scaletta, cose che ci teneva a chiedere e anche io perché mi pareva tutto molto a fuoco. Abbiamo iniziato bene, come da scaletta, poi le persone presenti sono intervenute subito, hanno scaldato tutta la libreria con le loro domande e le loro aperture, Sara sorrideva e anche io. Non riuscirò mai a spiegare quel calore, quell’energia, quelle risate, mi hanno tenuta sveglia per molto tempo questa notte, ci ripensavo, mi tornavano in mente, sorridevo.
La maggioranza era al femminile, le donne quando si trovano tutte insieme sono fantastiche e hanno fatto sentire fantastica anche me per un’oretta. Amo Parma.
Vorrei ricordare tutti i nomi, non sono quel tipo di persona, li confondo sempre. Però i sorrisi, gli sguardi, le chiacchiere, quello non lo posso dimenticare.
La giornata è finita con un bel viaggio di ritorno, merito mio che ho voluto fare per Verona, il Capitano era più propenso a per Bologna.
La giornata è stata un bellissimo regalo. Non la dimenticherò mai. Grazie Parma.
Grazie Francesca.

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Se senti rumore di zoccoli.

Da una certa età e sino a una certa età, se una donna sessualmente attiva verifica un ritardo nel ciclo mestruale è piuttosto raro che pensi a una patologia, più facile che pensi a una gravidanza. A prescindere da qualsiasi precauzione. Non voglio generalizzare, allora lo dico che io penso così. Tutte le volte che mi è accaduto qualcosa di anomalo non ho mai pensato che si trattasse di una cosa necessariamente brutta. Quando mi trovo bloccata a letto dall’influenza per me è influenza, vuol dire che ho preso un virus, che il mio corpo è stressato, che ho bisogno di riposo, se ho febbre alta resto a letto sotto le coperte e prendo la giusta dose di tachipirina. Se ho l’influenza non penso a una malattia che si protrarrà più a lungo (bronchite?) neppure se ho le alte vie respiratorie chiuse, la tosse e il fischietto ai polmoni.

Tendo a pensare bene, a essere ottimista, se sento zoccoli è di sicuro un cavallo. Di solito ci prendo anche, ho ragione.

Poi ci sono le poche volte in cui ho torto, lo so che ho torto in realtà. Le volte in cui sento rumore di zoccoli e so che non sono cavalli, sono zebre e io però continuo a pensare “No, dai… non può essere che siano zebre, saranno cavalli” e passo dalla ragione del primo istinto, zebre, al torto del pensiero ottimista prevalente, cavalli. Quelle volte lì di solito sto zitta perché comunque ci spero che prima o poi la situazione si trasformi in cavallo.

Una volta, quando ero piccola e non solo bassa, mi ricordo di essere stata avvicinata da un ragazzino, piccolo come me e per nulla basso. Io avevo sentito e identificato quel rumore di zoccoli come zebra, poi mi sono detta che no, ma figuriamoci, è sicuramente cavallo. Niente di truce signori miei, niente patologie, parlo di tempi in cui si andava in discoteca di domenica pomeriggio con il documento falso. A volte ti avvicinava il ragazzino che era sicuramente cavallo, a volte si avvicinava la zebra. Niente contro le zebre, peraltro, solo che ho sempre preferito i cavalli. La zebra non era mai una manifestazione di intenti assoluta, la zebra ingannava, ti diceva che ti avvicinava per un motivo (fare amicizia, come diceva anche il cavallo) e poi però ti aveva avvicinata per altro. (Ma non importa se si tratta di una sigaretta, di un giretto fuori dalla discoteca, di farsi offrire un drink, del far finta di essere interessato a te e invece gli piaceva la tua amica, ora questo non è importante, quello che conta è la confusione nel sentire il rumore di zoccoli).

Mi capita anche oggi, identifico zoccoli di zebra in tempo zero, poi però è come se volessi sbagliarmi, anzi, io voglio proprio sbagliarmi. Sono ottimista, siamo nel quattordici non posso credere che sia zebra. Poi lo è sempre. Di solito diventa ancora più zebra ogni volta che dice “no, io mica intendevo così” “guarda che hai capito male” “non ci siamo, hai travisato il mio pensiero”, e io sono ancora lì a provare a crederci che sia cavallo.

Oggi siamo arrivati al massimo della mia tolleranza. Ho deciso di farmi un regalo. Smetto di essere ottimista e inizio ad essere una che si fida di se stessa. Fanculo l’ottimismo e fanculo l’accondiscendere. Fanculo le zebre travestite da cavalli, non avrò pietà, o vi palesate per quello che siete o non se ne esce. E’ il momento in cui dovete tirar fuori la vostra natura, evitate di interagire con me fingendo che sia per una cosa e poi invece è per un’altra, la considerazione che ho per voi non cambia, ci mettiamo solo più tempo e io non ho tempo da perdere, non ne ho più, non lo avete neppure voi. Smettete di fare il giro largo. Tirate fuori le gonadi e dichiaratevi, subito.

In allegato a questa riflessione la foto di me insieme a Imprint che è il cavallo di una mia amica.

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(Avete notato che Imprint ha il cravattino sulla coda?)

 

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Quei giorni li

Sono molto vicina alla mamma, siamo così unite che ci accadono delle cose stupidissime. Per esempio ci succede spesso che magari lei, a casa sua, prepari le polpette e io, a casa mia, prepari le polpette. Nella telefonata serale in cui ci raccontiamo cosa abbiamo preparato per cena poi ci fa sempre molto ridere che tutte e due, senza metterci d’accordo, abbiamo mangiato polpette. Ci capita spesso, spessissimo e a un certo punto mi sono chiesta se forse siamo poco originali, se sappiamo fare tre cose in tutto e se quindi è per questo che facciamo le cene uguali. Non è per questo, lo so, e mi piace prendere le coincidenze culinarie come un filo che ci unisce (anche se la ricetta delle polpette perfette ci divide).
La mamma mi ha avuta che aveva vent’anni… Era la mamma più giovane della mia classe scolastica (sempre, in qualsiasi classe). Ho iniziato ad accorgermi di avere la mamma giovane col tempo, ogni mio anno in più me la rendeva sempre più amica piuttosto che mamma. Poi sa fare anche la mamma eh, di zoccolate in testa ne ho prese tante, la manina me la stringeva nel momento del bisogno, me la stringe ancora ma ho sempre amato il sentirla vicina in età, ho amiche oggi che hanno i suoi stessi anni.
C’è stato un giorno, il giorno prima che io andassi a convivere, che abbiamo preso lo stereo, ci abbiamo messo in cd di disco dance anni 70 e abbiamo attaccato a ballare. Lei a ballare è sempre stata più bella da vedere rispetto a me. Eravamo malinconiche ma tanto felici, un po’ era da ridere e un po’ ci veniva da commuoverci. È una sera che ricorderò sempre, oggi un po’ di più perché è il suo compleanno e io la penso più forte.
Auguri Carmen, stasera balliamo!

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è tornata, uguale ma nuova.

ristampa

L’unghietta con lo smalto un pochetto saltato vi dice che avevo la febbre in sti giorni, così ero più scazzata del solito a farmi le unghie.

Poi mi ricordo che quella mattina lì, in dettaglio, avevo 38 e mezzo di febbre. Hanno suonato al citofono, ammetto di avere impiegato parecchio a raggiungerlo e quando ci sono arrivata ho risposto con la voce che non faceva troppa voglia di presentarsi. Ero a casa da sola, sono tornata a letto imprecando in sanscrito in direzione del postino che suona i campanelli e poi non dice niente.

Poi è arrivato il Capitano, gli ho chiesto se quel farlocco del postino avesse lasciato qualche avviso da firmare visto che ha suonato ed è scappato come facevo io a sei anni (e forse oltre), e il Capitano aveva il pacchetto in braccio, di quelli col pluriball con il logo Piemme in testa e il mio indirizzo scritto a mano con una calligrafia finissima.

Non ci sono arrivata subito, un po’ avevo la febbre, un po’ erano giorni che avevo la febbre, poi ero arrabbiata col postino e figuriamoci se mi ricordavo che vengono inviate copie autore anche per le ristampe… allora per un po’ ho fatto il trova le differenze, poco in realtà, perché quel 2 salta proprio all’occhio.

Il timbro postale sulla busta in pluriball porta data 26 febbraio, la prima edizione di E se poi mi innamoro, pazienza è del 28 gennaio, allora la ristampa è accaduta in meno di un mese. Io sono sempre molto contenta.

Ho letto un libro di cui forse vi parlerò, il protagonista dice che se non c’è il lettore il libro non è un vero libro, resta uno scritto, perché il lettore ci mette la fantasia, la sua, ci mette l’immaginazione, la sua e trasforma semplici parole in fila su carta stampata in libro. Allora io volevo dire di nuovo grazie a tutti.

Grazie.

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Sono una donna fortunata…

sono sempre in compagnia di relatrici e relatori con uno stile certo e un certo stile

vi presento Beatrice 

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di Ancona, delle amicizie, del mondo che è un orticello.

Il piano originale prevedeva che io mi alzassi dal letto, con il colpo di reni, contestualmente all’allarme della sveglia, settato a ore sette.

Quello che è accaduto (invece) è che stavo ancora poco bene dal giorno prima, in piena carenza di energia, impossibilitata a uscire dal letto, con giramenti di testa a ogni movimento. Sono riuscita ad alzarmi alle otto e mezzo, con evidente ritardo sulla tabella di marcia, e lasciare Venezia in favore di Ancona poco prima delle dieci.

Per tutto il viaggio di andata (po’ meno di quattro ore)  passavo dallo stato comatoso allo stato zombie. Il Capitano secondo me era contento che non cantavo.

Arrivati ad Ancona centro i miei amici mi hanno vista ma io non ho visto loro, così abbiamo rifatto il giro del piazzale, poi di nuovo loro mi hanno vista e io continuavo a non vedere loro, anche se si sbracciavano. Abbiamo parcheggiato fiduciosi che fossero lì, c’erano ed erano bellissimi. Siamo andati a pranzare in un posto dove fanno la pasta fatta in casa, ho ceduto un po’ della mia porzione al Capitano che ha fatto finta di fare i complimenti.

Siamo andati alla Feltrinelli, Carlotta che mi salutava dalla vetrina, siamo entrati alla Feltrinelli, Carlotta che mi salutava dalla classifica locale, forse l’ho solo immaginato ma mi pareva dicesse “ciao mamma”. Sono salita al piano di sopra di Feltrinelli e c’era Beniamino che era il mio relatore. Abbiamo fatto sedici foto buffe insieme, tutte venute mosse e un po’ male, ma ridevo tantissimo.

I miei amici poi ci hanno portati a Portonovo, il Capitano si divertiva un sacco nel pieno della digestione a farci fare i tornanti con l’automobile con le sospensioni in assetto rigido da corsa. Portonovo è bellissimo, c’erano i germani e le anatre e poi i miei amici dicevano che se arrivavano i gabbiani le anatre scappavano. I gabbiani delle Marche sono grandi un terzo dei gabbiani veneziani, infatti quando arriva un gabbiano veneziano non è che scappino le anatre, scappo io.  Il monte Conero ha iniziato a fare ombra dopo una mezz’oretta. Noi eravamo sulla spiaggia con alle spalle la pineta, ogni tanto mi arrivava una zaffata di salsedine e ogni tanto una di pineta.

Poi sono tornata ad Ancona, il Capitano è partito in escursione con i miei amici, io ho fatto amicizia con Beniamino invece, e il suo barman di fiducia. Abbiamo riso molto, ci siamo raccontati aneddoti, il tempo un po’ è volato e siamo andati verso la libreria.

Una cosa molto bella che è successa è stato che prima della presentazione abbiamo iniziato a chiacchierare di libri, in principio parlavamo io e lui e basta, poi si sono infilate nel discorso le persone che erano lì, e quelle che erano parole sottovoce sono diventate dibattito.

Un’altra cosa molto bella è che a fine presentazione una mia amica è arrivata tutta trafelata, in corsa, un po’ con fare timido da sono in ritardo e un po’ da “fermi tutti e continuate a parlare” e anche se mi è dispiaciuto per la sua corsa mi ha fatto tanto sorridere. Poi un’altra cosa che mi è piaciuta è stata quando eravamo in conclusione della presentazione, e io ho detto “vi leggo un pezzetto” e una signora si è alzata e ha detto “noooo, per favore, ho gente a cena e non ho ancora finito di preparare” e siccome ci pareva parecchio disperata la abbiamo liberata.

Poi siamo tornati tutti insieme dal barista di Beniamino e abbiamo continuato a ridere sino alle lacrime.

Nel viaggio di ritorno cantavo. Il Capitano secondo me era contento che cantavo.

Quando siamo arrivati davanti alla porta di casa siamo stati travolti da una puzza di piedi agghiacciante, era un odore molto vicino al gorgonzola e la fogna. Ci siamo guardati intorno e l’occhio ci è caduto sulle scarpe della figlia della vicina, lasciate sull’uscio di casa sua, abbiamo convenuto che la seienne non può avere i piedi così puzzolenti, proprio non può. A un metro di distanza c’erano delle scarpe da uomo, fuori dall’uscio della vicina. Come prima cosa questa mattina ho controllato se c’erano ancora quelle scarpe in ballatoio, non c’erano,  sono convinta che se ne siano andate da sole. Comunque è stato molto bello ieri sera quando io e il Capitano ci siamo levati le scarpe in casa (noi le teniamo in casa perché sono le nostre scarpe) e abbiamo convenuto che i nostri piedi sanno di gelsomino.

Anche la foto qui sotto mi fa molto ridere.

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Arigrazie

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Queste fotine coprono il Veneto, L’Emilia Romagna, il Lazio e la Sardegna. Mi sono arrivate in giorni diversi e in momenti diversi, ho aspettato di averne sei a raccolta, non farò la spiega lunga del perché sei ma la breve è che il sei è il doppio del tre e il tre, come il dodici, è proprio un bel numero nello yoga. Dopo averne raccolte sei ho dovuto aspettare di avere dieci minuti per attaccarmi al pc. Fatico a tirar fuori dieci minuti per qualsiasi cosa di recente e mi dispiace.

Oltre a dire grazie ai miei amici per la magia volevo anche dire grazie alla distribuzione. Carlotta è dappertutto. Un rigrazie anche alle persone che lavorano nelle librerie. Mi era capitato di stare vicino a Fante (in ordine di cognome) ed era stato bello, ma essere tra Mazzantini e Tamaro (post precedente) o vicino alla Ephron (post di oggi) ecco non mi era mai successo. Fa sorridere, carica la magia di altra magia.

Grazie, mi regalate dei grandi sorrisi.

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Archiviato in cose arancioni, Il vino comunque è female lo si evince dall uva

A modo mio.

Ieri era San Valentino. Io non l’ho mai festeggiato. Mai.

C’è stato un periodo della mia vita in cui ci tenevo, ci tenevo moltissimo. Era tra i quattordici e i sedici anni, le mie amiche avevano il fidanzatino e anche io, mi lasciava il 13 e tornava con me il 15 di febbraio, eravamo un po’ litigati per due giorni e poi si ripartiva.

L’anno scorso al Capitano ho preso le M&Ms personalizzate, la metà riportava la scritta Pippo, e l’altra metà Ti amo. E sono riuscita a dargliele convincendolo che non era per San Valentino, che noi il santo dei cuoretti non lo festeggiamo.

Ieri gli ho fatto trovare sul volante della play un biglietto tutto rosso con incastonati due cioccolatini dal cuore morbidissimo, lindt irresistibili. Lui non li ha visti subito, infatti mi ha telefonato incazzoso, che ancora non li aveva visti e io ho pensato che quando si sarebbe accorto l’avrebbe vissuto male di avermi fatto una telefonata stronza. E così è stato. La seconda telefonata era tutto un “ma non dovevi… non festeggiamo mai… ma è ingiusto… mi hai preso in contropiede…”. A casa ho un sacco di cioccolato e tantissimi fiori. L’ho preso in contropiede, lo so, ma ho visto il biglietto e mi pareva bello e ho pensato di regalarglielo.

Avrei dovuto darglielo il giorno prima, o oggi. Ho sbagliato.

La mia editor mi aveva telefonato ad Agosto, o giù di lì, per chiedermi se mi andava di scrivere il romanzo breve per san valentino. Io a lei non lo ho detto che è una cosa che non festeggio mai, che non ho esperienza. Non le ho detto che i cuoretti non sono il mio forte. Ho detto “certo, grazie per l’opportunità” che mi pareva una cosa bella. Ho pensato che in qualche modo me la sarei cavata. A distanza di un mesetto mi sono incontrata con due care amiche, la Isa e la Cri, ho raccontato di questo romanzo breve che dovevo scrivere per un’ uscita a San Valentino, mi aspettavo grasse risate e invece no. Mi hanno detto che anche se io credo di non essere da cuoretto lo sono, che lo sono a modo mio. Un po’ brusca, a volte irruenta, troppo razionale, molto fredda ma che io le situazioni da cuoretto le vivo così.

Il mio romanzo di San Valentino è uscito così, un po’ irruento, un po’ razionale, con la protagonista che non ha mai festeggiato san valentino.

La protagonista, Alice, a un certo punto riceve un dono inaspettato, dei cioccolatini, da una sua collega e si sente ricoperta di amore.

Io San Valentino non lo festeggio, però…

  • ho lasciato un biglietto con i cioccolatini al Capitano
  • ho portato un ovetto kinder a un mio collega
  • ho ricevuto due bellissime letterine da due bellissime donne
  • ho inviato un messaggio di auguri alla mia neo amica che di nome fa Valentina
  • ho ballato abbracciata al gatto sussurrandogli “you are my sunshine, my only sunshine, you make me happy… la la la la”
  • ho ricevuto un cioccolatino al bar dove prendo il caffè doppio ogni mattina
  • ho mangiato i tramezzini in pausapranzo anche se avevo messo un periodo di stop ai tramezzini
  • ho regalato una sigaretta senza sbuffare
  • ho cantato ad alta voce “Un raggio di sole” mentre attraversavo il porto, anche se era un po’ più che buio.

 

Forse è come dicono le mie amiche La Cri & la Isa… forse non è che non festeggio san valentino, forse lo festeggio, solo che è a modo mio.

 

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Questa sera…

Questa sera ci sarà la prima presentazione di E se poi mi innamoro, pazienza. Sarà alla Feltrinelli di Mestre, piazza barche. Sarà una delle presentazioni che mi aspetto “emozionali”. Io, a oggi, dormo a Spinea, vivo a Venezia,  sono nata a Mestre, ho abitato a Malcontenta, il periodo più lungo della mia vita l’ho trascorso a Marghera. Avete presente i gruppi di FB “sei di Marghera se, sei di Malcontenta se, sei di Oriago se” ecco, a me confondono…

Questa sera vedrò persone che non vedo da molto tempo, non ci siamo mai persi, però non ci vediamo da troppo tempo. Ci sarà la mia famiglia, quasi tutta… ci saranno i colleghi dell’ufficio di oggi, persone con cui ho lavorato in passato, sarò emozionata anche solo per il rivedere dei visi.

Mi sono svegliata che ero concentratissima su Carlotta, non mi capitava da un po’, dall’ultima revisione. E’ stato bello riaverla con me, anche se mi svuota. Ho segnato le presentazioni prossime sulla lavagnetta qui a destra, così se siete liberi e felici passate a trovarmi. Ho infilato la fotina del mio nuovissimo romanzo, il romanzo breve, disponibile solo in ebook per ora, anche se mai dire mai.  Mi sento fortunata, mi sono accadute cose molto belle,  sto vivendo un periodo di grazia anche se saturo di impegni.

Questa sera sarà bello, bellissimo, ma lo è anche ora.

 

 

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Grazie.

Trovo che ci sia qualcosa di magico in chi entra in una libreria (o ci passa davanti) e mi manda il messaggino o me lo tagga su fb o twitter. Adoro i pensierini. Grazie.

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02/08/2014 · 8:30 AM

Avevo una testata arancione.

Non cambiavo i colori del blog dal passaggio splinder – wordpress. Quando stavo su splinder ho cambiato le impostazioni del template solo una volta. Quando dico o penso splinder mi si apre uno spiffero sul cuoretto, sono nostalgica e sto invecchiando.

Spero che il celeste e le nuvole vi piacciano.

Io sono contenta ma il primo che viene a dirmi che il celeste del fondo non è come il celeste del nome che non è come il celeste della testata e che forse era meglio col bianco, lo chiudo dentro al template e butto via la chiave.

 

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Il pendolarissimo.

Qualche giorno fa sono stata in trasferta. Sono stata via un giorno, è stato lungo. Ho preso il treno alle sette del mattino alla stazione di Marghera (per chi abita fuori Marghera è la stazione di Mestre, per me sarà sempre e comunque la stazione di Marghera, non la Marghera porto, la Marghera e basta). Sono tornata alla stessa stazione alle ventidue. Ci sono rimasta di m…armo quando mi sono accorta che il treno stava sostando a Padova, perché quando non vedi l’ora di arrivare a casa, di levarti le scarpe, di farti la doccia e sai che il Freccia impiega tra i nove e gli undici minuti per arrivare alla stazione di Marghera, tutto quello che non vuoi è fare sosta a Padova per un quarto d’ora.  I treni sanno essere crudeli in modo assurdo, la stazione di Marghera è la penultima fermata visto che quella dopo, la stazione di Venezia Santa Lucia, è il destino finale, come diavolo ti viene in mente di farci sostare un quarto d’ora a pochi passi dall’arrivo?

Sono partita da casa organizzatissima, poche cose ma fondamentali: i caricabatterie dei telefoni, l’ipad, i fazzoletti di carta, il kit per lavarsi le ascelle in viaggio, un libro, una rivista, due soldini, le chiavi della sede di Ancona, i progetti per il cliente, i biglietti del treno (che controllavo fossero sempre in borsa ogni due ore, scippatemi tutto ma non i biglietti del treno), il passaporto, una bottiglia d’acqua, le chiavi di casa mia.

Ad Ancona mi sono costruita una casetta, un mio collega mi ha aiutata tutto il giorno a orientarmi, a spostarmi in giro per la città, a farmi sentire meno sola. Ho appoggiato le mie cose nella sede, ho fatto la pipì in bagno, mi sono lagnata del lavello, ho guardato fuori dalla finestra con espressione intellettuale. A pranzo sono stata in centro, ho mangiato della pasta fatta in casa, mi sono sentita fiera di me stessa a riconoscere che era fatta in casa anche solo a vederla da distante. Poi sono stata alla Feltrinelli, ho trovato il mio libro e l’ho anche visto andarsene dallo scaffale, è stato molto bello, adesso posso immaginare il volto di alcune persone mentre leggono. Sono stata fortunata. No, non ci voglio pensare al fatto che forse lo hanno preso per fare un regalo, voglio immaginare quei volti mentre leggono.

Ad Ancona mi sono costruita una casetta dicevo.

Sul treno di ritorno è stato tutto un po’ grigio. All’andata sei un po’ emozionato, hai preso almeno quattro caffè, forse cinque, non puoi dormire, vedi il paesaggio che cambia (a Bologna c’era la neve a terra, a Fano pareva estate). Al ritorno sai già come sarà il paesaggio, non vedi l’ora di essere a casa perché sei stanca, vuoi abbracciare il gatto, poi c’era uno dietro di me che non smetteva di parlare un secondo. Questo prendeva una telefonata, chiacchierava, riattaccava e ne faceva subito un’altra. Avanti così tutto il viaggio, lui è sceso a Padova e nel vagone è calato il silenzio. Io di telefonata ne ho ricevuta solo una, dal mio capo, ho parlato sottovoce e abbiamo riattaccato quasi subito, non volevo disturbare la gente che era vicina a me. Magari potevo dilungarmi, magari potevo telefonare a qualcuno anche io, mi sono quasi imposta di non farlo, ho mandato molti sms. Ho passato gli ultimi giorni a realizzare che quello lì, quello che parlava in continuazione, altro non faceva che farsi casetta in treno. Lui ha sfruttato il momento del viaggio per parlare con gli amici, con la famiglia, con la morosa (non ho fatto apposta a ascoltare, è che si sentiva solo lui), si è comportato come avrebbe fatto a casa sua, perfettamente a suo agio. Mentre io continuavo a pensare che quel tempo in treno era tempo sprecato, e così l’ho sprecato.

Ho pensato che se vado, quando vado, mi faccio anche io casetta in treno.

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Meno tre

Chi mi conosce lo sa, non faccio gran caso alle condizioni atmosferiche, soprattutto se stiamo verificando che in inverno fa freddo e in estate fa caldo. Allora nel titolo dico che mancano tre giorni all’uscita del mio romanzo nuovo. Prima o poi troverò anche altri argomenti su cui riflettere, per esempio non ho mai parlato del sesso degli angeli, ma in questo periodo sono davvero molto molto molto concentrata sull’uscita del libro. Vorrei essere una di quelle che stanno buone, calme, tranquille. Avevo un paio di cugine che venivano in montagna con me in estate, ricordo che loro in viaggio stavano buone, buonissime, la nonna diceva che era come non averle (un grande complimento in quel periodo della vita dei bambini). Io ero il terremoto. Parlavo, cantavo, guardavo fuori, mi veniva da vomitare sui tornanti, le avevo tutte, infatti la nonna a me diceva che mi avrebbe riportata indietro. Io ero troppo contenta di andare in montagna per stare buona e zitta sul sedile, in montagna, Asiago, con i cavalli, con il mio maestro dei cavalli, con il ragazzo con gli occhi azzurrissimi che puliva le stalle… Come si fa a fare il viaggio fermi e zitti? Come faccio a stare buona e zitta che tra tre giorni c’è il debutto in società della Carlotta? Eh? Come?
Non posso.
Non vedo l’ora di avere il libro tra le mani.
Spero non puzzi troppo di colla (a volte mi capita di prendere libri che un po’ puzzano di colla).
Spero di smettere di sacchettare le palle alla gente a stretto giro.
Il mio editore ha infilato i primi due capitoli del romanzo qui, poi mi è stato chiesto se esce anche per kindle, la risposta è yeah! È tutto qui
Inganno l’attesa pulendo le noci dalla pellicina.

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un mese*

Natale è andato. E’ stato molto bello per far dispetto al mio cinismo. Ché sì, la casa addobbata come il villaggio degli elfi (ho quattro alberi addobbati sparsi per il salone, il più grande fa due metri e dieci, il più piccolo quaranta centimetri), ho preparato la cremina al  mascarpone tradizionale, ho impacchettato più regalini di quanti avrei voluto (ho la manualità di un cipresso, direi che fare pacchetti non è il mio campo), ho ordinato i panettoni in pasticceria. Insomma ho fatto tutte le cose come vuole la tradizione di un nataloso praticante. Poi c’è sempre un retrogusto amaro a farmi compagnia, anche se faccio finta di niente mi accorgo di tutto e, anche se non vorrei, in questo strano periodo ci do più peso. Più che in altri momenti mi vien facile notare quello che non è arrivato rispetto a ciò che è arrivato. E’ sbagliato e non è di aiuto all’essere felici e contenti come si confà al nataloso praticante.

Chi non ha osservato il mancato arrivo di un augurio di natale scagli il primo biscotto al pan di zenzero.

 

* tra un mese esatto sarò in libreria, ho una strana passione per i conti alla rovescia, sono il genere di donna che fa le croci sul calendario e le crociate per le cose che agli occhi dei più sono frivole.

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